Si dondolava un po’ insieme al treno e ascoltava quel rumore insistito, quel ritmo cadenzato delle ruote sui binari, che gli richiamava alla mente altri rumori e, come non fossero passati così tanti anni, il battito lento e ostinato del telaio di sua madre. Lo scompartimento era tenuto male, i sedili graffiati e tinteggiati qui e là con scritte che nessuno aveva saputo cancellare completamente e che erano ancora capaci, benché impallidite e stinte, di raccontare vecchi amori, nomi, parolacce, lontane storie dimenticate.

Da due soli giorni in Italia. Era un po’ spaesato, ma non poteva rinunciare a quell’opportunità: Firenze, l’opificio, il restauro. I suoi studi in Francia avevano avuto successo, le sue tecniche computerizzate e le pubblicazioni in merito, gli erano valse una certa notorietà. Pierre Loran, il restauratore, si era fatto un nome e aveva accettato i due anni di contratto, trasferendosi in Toscana. Un paio di giorni e si sarebbe presentato per firmare il contratto. Aveva anticipato il suo viaggio italiano, perché era successa una cosa. Una di quelle che in tanto tempo dedicato alla studio e al lavoro, aveva trascurato. Una di quelle che hanno come prima, riconoscibilissima caratteristica, l’avventura.

La ragazza l’aveva contattata in una chat, grazie a Internet e aveva preso appuntamento. A Livorno. Era una città che non conosceva. Non c’era mai stato e ci andava in treno. Linea Firenze, Livorno, Pisa, La Spezia.

Pierre, parigino di 27 anni, iniziava la sua vita italiana, incontrando una donna. Tutto questo gli piaceva. Come aveva sempre sognato: il lavoro che adorava, l’avventura, addirittura l’amore. Anche se forse correva un po’ troppo. Alla fine non sapeva niente di lei e parlare d’amore sarebbe stato almeno prematuro, ma gli piaceva lo stesso pensarlo. Nel treno si addormentò stanchissimo. Aveva passato metà della notte dietro al computer in quell’Internet caffè e ora ne pagava le conseguenze. Fece un sogno strano. Solo per pochi istanti si era trovato nella camera dove era morta sua madre. Lei era a letto, gli sorrideva triste e cercava di dirgli qualcosa. Lui si era avvicinato il più possibile, ma una forza a cui non poteva resistere lo aveva trattenuto e, da quella distanza, aveva solo capito le parole: “Cerca il nome”. Sua madre era spesso prodiga di raccomandazioni e non lo stupì certo quello. Rimase stupito dal tono di voce rassegnato. Quasi che lei supponesse impossibile trovare quanto lui avrebbe dovuto cercare.

Lo svegliò la frenata del treno. Prese la borsa e, ancora assonnato, scese in fretta. Appena messo piede a terra pensò che non conosceva nulla della città di Livorno. Sapeva a malapena che c’era il mare.

Si sentiva un po’ disorientato e senza punti di riferimento. Non era però troppo preoccupato, perché la ragazza che si apprestava ad incontrare gli avrebbe fatto sicuramente da guida. Sempre su Internet aveva trovato un albergo. A stretto giro di posta elettronica aveva prenotato una stanza. Una doppia. Comunque fosse andata con lei, con Patrizia, avrebbe passato la notte a Livorno; meglio avere un recapito sicuro. Se poi Patrizia fosse venuta con lui a dividere quella stanza, tanto di guadagnato, ma per scaramanzia non ci voleva pensare troppo. Guardò l’orologio. Erano quasi le quattro. Non faceva in tempo a passare dall’albergo, ci sarebbe andato dopo averla incontrata. Controllò sul cellulare. Aveva memorizzato nella rubrica il numero dell’albergo “Francia”. Avrebbe chiamato dopo.

Ora un taxi. L’appuntamento era in via V… dove lei lavorava in un ufficio di pubblicità. Dalla foto Patrizia gli era parsa un sogno. E ora, a minuti, l’avrebbe vista. Riguardò l’indirizzo che aveva scritto dietro la foto di lei, quella che si era stampato appena Patrizia gliel’aveva spedita via Internet. Cercò di pronunciare bene la via e la disse all’autista che grugnì qualcosa e poi si voltò a guardarlo. “Non è proprio Via V…”, disse.

“E cos’è?”

“È un viale”.

“Un viale?”

“Quello con gli alberi”.

“Ho capito, lo so cos’è un viale”.

“La porto lì?”

“Certo, via o viale è la stessa cosa”.

“Se lo dice lei”. Pronunciate queste parole, l’uomo si voltò e mise in moto.

Mentre il tassista guidava in silenzio, Pierre controllò ancora l’indirizzo. Aveva scritto Via V… Forse si era un po’ confuso con l’italiano e non aveva capito bene. Purtroppo non aveva il telefono di lei. La troppa emozione gli aveva giocato un tiro e si era dimenticato di farselo dare. Lui stesso non le aveva lasciato altri recapiti che il suo indirizzo e mail. Si sistemò meglio a sedere. La foto che Patrizia gli aveva mandato via Internet lo aveva lasciato senza fiato. Quel sorriso aveva popolato i suoi pensieri per tutta la notte che, anche per colpa  dell’uso forsennato del computer, aveva passato quasi senza dormire.

Era già arrivato. Pagò e scese. Il numero 8. Guardò i campanelli. La società che gli aveva detto lei, non c’era. Al piano terreno c’era solo scritto “Studio”.

Provò una punta di ansia che gli strinse il cuore. Perché Patrizia non gli aveva fatto presente quel particolare? Bastava spiegargli che sul campanello non c’era scritto “Pubblicità 3000”, ma solo “Studio”. Forse non glielo aveva detto perché si trattava di un particolare insignificante. Che differenza c’era? Lei con certezza non si era curata di dargli quell’indicazione del tutto superflua. Era solo un ansioso. Un nevrotico che tendeva al pessimismo e alla depressione.

Il portone era aperto ed entrò. Si trovò in un androne buio.

Riguardò la targhetta sulla porta. “Studio” era scritto anche lì, come sul campanello. Suonò. Gli venne ad aprire una donna con uno spazzolone in mano e degli occhiali spessi, in fondo ai quali si intravedevano due fessure che dovevano essere occhi.

“Desidera?”

“Cerco Patrizia”.

La donna pareva molto miope, quasi cieca. Strizzò di più le due fessure e cercò di individuarlo. “Lo studio di pomeriggio è chiuso, io faccio le pulizie e questa Patrizia non la conosco”.

Pierre sentì caldo sulla faccia. Doveva essere arrossito penosamente. “Avevo appuntamento…”

“Mi dispiace, ma io devo continuare il mio lavoro e non la posso fare entrare, tanto più che non c’è nessuno”. Detto questo la donna chiuse piano la porta continuando a borbottare.

Pierre Loran non riusciva a capire cosa stava accadendo. Lo aveva preso in giro? Dopo avergli mandato la fotografia, dopo avergli scritto dei suoi viaggi in Francia, dopo tanta gentilezza? Non riusciva a crederci. A parte lo “Studio”, c’erano altre due porte. Controllò le targhette vicino al campanello, ma c’erano solo dei cognomi che non gli dicevano nulla.

In quel momento sentì qualcuno che scendeva le scale. Un uomo gli venne incontro nella penombra.

“Lei è?...”

“Cerco Patrizia”. Lo aveva detto sentendosi un po’ ridicolo e provando a mascherare la pronuncia, ma con tutte quelle erre…

“Sei il francese?”

“Sì”, rispose un po’ confuso.

“Finalmente”.

Pierre lo guardò senza capire.

“Ti stavamo aspettando”.

L’uomo gli andò vicino e gli mise una pistola in mano. “Questa volta niente scherzi. Da quella porta uscirà un uomo, tu spari e te ne vai. Attento, se fai come l’altra volta ti ammazziamo”.

L’uomo si zittì. Uscì e si mise al volante di un’auto in sosta. Nel sedile di dietro Pierre intravide un tizio che non lo perdeva di vista. Nulla di più facile fosse armato e lo tenesse sotto tiro. Pierre rimase imbambolato, come in trance, con la pistola in mano. Forse avevano sbagliato persona, ma forse c’era semplicemente cascato e si era fatto invischiare con chissà quali malavitosi. L’appuntamento era una trappola. Perché lui? Come facevano a sapere che frequentava i poligoni per divertimento e che conosceva l’uso delle armi?

Strinse la pistola. Patrizia era stata l’esca. Volevano solo un esecutore. Chissà che anche il contratto all’opificio non fosse un bluff. In quel momento si sentì franare il mondo sotto i piedi. Patrizia non esisteva. Il lavoro che gli dava la possibilità di trasferirsi in Italia, probabile fosse poco più di uno scherzo. Guardò la rampa di scale alla sua sinistra. Forse poteva tentare una fuga da lì. Salire di corsa fino in cima, cercare il modo di raggiungere i tetti e da lassù provare a nascondersi; chiamare la polizia, magari il suo albergo. Bastarono pochi istanti per capire che non avrebbe mai potuto agire così. Lo avrebbero raggiunto e ucciso senza pietà.

La porta al piano terreno si aprì in quel momento. Ne uscì uno calvo con i baffi. Pierre si girò un istante. Il finestrino era aperto e quel brutto tipo continuava a non perderlo di vista. L’uomo che aveva fatto da pochi istanti la sua comparsa in quell’androne buio, chiuse a chiave e si voltò guardandolo in faccia. Pierre rimase per un momento incerto sul da farsi. Teneva la pistola lungo il fianco e quel tizio che gli stava davanti non se n’era accorto. Quando Pierre si svegliò da quel momento sospeso, quasi irreale, non ci pensò su molto. Preso dall’angoscia, dalla paura; incapace di ragionare, stava per buttare via la pistola.

“Lei è armato!”

L’uomo gli si buttò addosso e cercò di colpirlo. Pierre schivò il colpo, poi qualcosa brillò nel buio. Era il coltello impugnato dal tizio che ora pareva trasfigurato nel volto e deciso, quasi cattivo. Pierre non ebbe nemmeno il tempo di pensarci meglio; puntò l’arma e sparò. C’era il silenziatore e non si sentì nulla. L’uomo colpito in pieno petto si accasciò a terra. L’auto partì di corsa mentre Pierre, senza voltarsi, senza guardare quel corpo a terra, senza vita, uscì come un automa dal portone e si avviò a caso, sulla destra.

Aveva appena ucciso un uomo.

Doveva scappare. Prendere il primo treno. Tornare in Francia. Dov’era la stazione? Come faceva a chiamare un taxi? Cominciò un penoso vagare per strade che non conosceva, incontrando facce anonime, ascoltando un dialetto sconosciuto. Nel primo cassonetto buttò la pistola. I pensieri intanto gli andavano al tassista. Se lo sarebbe ricordato, quello con la pronuncia francese e anche la donna delle pulizie se lo sarebbe ricordato. Meno male era quasi cieca. Scappare. Doveva scappare. Patrizia sarebbe restata un sogno e lui da quel momento si sarebbe sentito un assassino in fuga. Altre strade, altra gente. “Dov’è la stazione?”

A destra, a diritto, tutto a sinistra… Non capiva bene l’italiano e si sbagliava. Guardò l’orologio. Poi gli venne l’idea di telefonare all’albergo Francia per disdire la camera. Avrebbe detto che era rimasto a Parigi per un disguido, Non era un ottimo alibi, ma qualcosa avrebbe contato lo stesso. Telefonò, si beccò il mugugno dell’impiegato e continuò la sua ricerca della stazione. Odiava Livorno. Di certo non ci sarebbe tornato mai più in tutta la sua vita. Sempre che tutta la sua vita non la dovesse passare in galera. Alla fine incontrò un taxi. Lo prese quasi al volo. “Alla stazione presto”.

C’era un treno per Firenze un’ora dopo. Si mise in sala d’attesa e inforcò i suoi spesi occhiali scuri. Forse avevano già scoperto il corpo e interrogato la donna delle pulizie. Quell’ora doveva passare presto. Intanto se ne restava nascosto là dentro. Tirò fuori di tasca la foto con il bellissimo volto di Patrizia e la strappò una, due, tre volte. Maledetti assassini. Maledetta Livorno. Lo avevano trattato come un imbecille e costretto a rovinarsi per sempre l’esistenza. L’ora passò con una lentezza interminabile. Alla fine si alzò, uscì dalla sala d’attesa e raggiunse il suo binario. Non c’era polizia. Ancora non avevano deciso di controllare la stazione di Livorno. Bene. Si sedette e attese. Fu in quel momento. Esattamente in quel momento. La sua attenzione fu presa da un cartello. Uno stupido cartello a cui non aveva fatto caso appena sceso dal treno. Si mise una mano sugli occhi e il cuore cominciò a battergli nelle tempie. No. Non era possibile… Per un istante pensò di essere vittima di allucinazioni, poi cercò di capire di ricordare. Si era addormentato, aveva sognato sua madre, era sceso di corsa. Non aveva fatto caso… Eppure il cartello era lì, visibilissimo. Blu con la scritta bianca, si vedeva a decine di metri. Chiuse ancora gli occhi. Li riaprì mentre il suo treno appariva in lontananza. Era inutile. C’era scritto proprio quello. Si alzò dalla panchina e lo guardò un’altra volta:

“Stazione di Pisa Centrale”.

 

-----------------------

L'errore di località dopo tanta suspense dà la stura alla risata liberatoria? Un ghignetto, via! diversione della trama prolungata ne è valsa la pena? O l'effetto del comico per degradazione (se ci ricordiamo bene la teoria di uno studioso del genere...) è comunque irresistibile? Comunque sia Rendez-vous ci ha divertito. E voi? Un commento, prego...