Presi il fagotto e lo rimisi in cella. La guardia mi fissava sorpresa.
– Che fai?
– Resto.
Giulio Salierno è un pezzo del pensiero sociologico e delle teorie marxiste italiane. Scomparso nel febbraio 2006 a settantun anni, non deve però la sua formazione (solo) agli studi. Quelli vennero dopo insieme alla consapevolezza che libri, cultura e conoscenza erano strumenti indispensabili per evolversi e dare forma, forse, alle proprie idee di rivoluzione o, quanto meno, di riforma. Il suo banco di scuola, il primo, deriva da esperienze di vita: quelle vissute all'inizio nelle formazioni giovani del Movimento sociale italiano e poi in carcere. Autobiografia di un picchiatore fascista, libro uscito per la prima volta nel 1976, racconta proprio di quel banco di scuola. Ed è il documento autentico di un percorso giovanile scandito da un entusiasmo fatto di rabbia, violenza, ribellione, giocato per le strade di una Roma che poco aveva da invidiare alle sommosse che dalla fine degli Anni Settanta e soprattutto nel decennio successivo hanno scandito quotidianità e ordine pubblico. Il giovane Giulio, fascitello di borgata cresciuto in una famiglia di caduti al fronte e nostalgiche memorie del Ventennio, inizia a frequentare la sezione di Colle Oppio e lì si distingue subito per la determinazione con cui organizza le file giovanili del partito e per l'ardimento con cui, in piazza, affronta la celere e i rossi.
E ancora la palestra, il pugilato, le scorribande notturne, i campi di addestramento fatti con gli anziani che avevano vissuto la guerra. Ma anche l'incontro con un giovane Pino Rauti, ancora lontano dalle manovre nere successive ma già chiaramente indirizzato verso un futuro di fascismo e terrore, con Julius Evola e il suo rifiuto del fascismo sociale, e con Giorgio Almirante, che pur moderato sapeva riscuotere le simpatie degli estremisti in erba. Poi il ritorno sempre lì, alla violenza, come unica valvola per cambiare un mondo che non piaceva. Salierno, in quegli anni, pensa che sparare - o ancor meglio collocare ordigni esplosivi - sia la strada per affrancarsi da un sistema nato da pochi anni ma già malato. E allora non si dà limiti, non si dà regole, se non quella di picchiare più forte degli altri, incutere timore e raccogliere consensi.
E sogna. Sogna un futuro da eroe della rivoluzione e della patria. Ma cade quando, convinto che per lui tutto resterà impunito, compie una rapina come se fosse uno scherzo lasciando a terra un ragazzo di poco più grande. Fugge, Salierno, varca il confine, si arruola nella Legione Straniera, ma condannato come un qualsiasi criminale per reati comuni viene arrestato in nord Africa ed estradato in Italia per scontare la sua pena. E solo allora, quando le porte del carcere si chiudono alle sue spalle, scopre davvero cosa sono vita, violenza, dolore e desolazione. Solo una volta precipitato nel profondo baratro della vergogna (non per aver ucciso, ma per essere considerato un deliquente qualunque, non un prigioniero politico), inizia a confrontarsi con il mondo - quello carcerario - che gli sta intorno. E di lì risale attraverso una presa di coscienza che lo porterà a studiare, osservare, confrontarsi con i suoi compagni di prigionia e poi scegliere il fronte su cui schierarsi: quello dei diseredati, di coloro che la brutalità - uno stillicidio di soprusi quotidiani - la vivono da sempre e che mai si libereranno da essa. Così nasce davvero uno dei più grandi (e forse poco valorizzati rispetto alla sua reale importanza) intellettuali italiani. Che in un passaggio della sua autobiografia racconta:
Pisciai nel bugliolo. Per combattere l'odore di orina e di sterco accesi un pezzo di carta e lo infilai nel vaso. Avevo scoperto la violenza del carcere. Fuori credevo fosse le bombe e le armi, in prionione mi ero accorto che l'unica vera, concreta violenza era quella di chi, tuonando contro la stessa, si serviva delle carceri e dei manicomi per liquidare i deboli, i ribelli e ammonire gli altri. Il potere era il bugliolo e il nemico il sistema che lo imponeva. Avevo creduto che Audisio fosse un bersaglio, mentre lo ero io. Così come lo erano i miei compagni di carcere quando rapinavano e rubavano. Alla classe dominante e alle istituzioni repressive, delitto e brutalità erano funzionali e necessari come l'aria all'organismo umano, ma riuscivano a far credere che appartenessero solo agli altri, a quelli che subivano il peso della macchina economica sino a esserne schiacciati, sino a cercare scampo nel carcere. E li etichettavano come delinquenti, criminali per nascita o tendenza.
Autobiografia di un picchiatore fascista di Giulio Salierno (Gli Struzzi, Einaudi, 1976) — 172 pagine — € 7,23 — ISBN 9788806103149
(Questo testo è rilasciato con licenza Creative Commons.)
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