Identificare, schedare, classificare, archiviare. Le immagini contenute in questa rassegna sono state concepite per assolvere, nelle nostre società burocratiche, queste semplici e fondamentali funzioni “meccaniche” di sorveglianza e di controllo.
L’uso giudiziario dei fotoritratti, “genere” solitamente trascurato dalle storie ufficiali, nasce poco dopo l’invenzione della fotografia, come se il primo riflesso, quello di puntare l’obbiettivo verso l’uomo, contenesse già al suo interno un impulso a sequestrarlo –possedendone l’immagine– per poi rinchiuderlo in qualche luogo (in una galera, in un manicomio, in un archivio). L’idea di “acquisire” l’immagine per “requisire” il criminale aveva un senso molto preciso a metà dell’ottocento, epoca in cui compaiono i primi ritratti segnaletici: la fotografia mostrava allora (e questo mito si dimostra ancora oggi quanto mai tenace) una capacità quasi prodigiosa di generare repliche “matematicamente” perfette della realtà, al punto da trasformare il ritratto e il suo soggetto nella medesima cosa.
L’apparecchio fotografico diventa allora uno strumento di misurazione; (ab)usato dalla neonata psichiatria per diagnosticare la malattia mentale, passa quasi subito, grazie all’equazione positivista pazzo=delinquente, nelle mani degli antropologi criminali per indagare nei segni del volto, nelle cicatrici, nelle deformità altrettante prove delle tendenze umane alla delinquenza.
Prima di diventare uno strumento di indagine (o un semplice strumento precauzionale), la fotografia segnaletica è stata una disciplina clinica, un sistema di classificazione dell’ “uomo delinquente”. E’ forse anche a causa di queste origini che le foto giudiziarie, se da un lato ci sembrano espressioni di un grado minimo della fotografia: neutro, pragmatico, impersonale (una fotografia senza fotografi), dall’altro si rivelano invece oggetti complessi, problematici, stratificati. Lo scatto fronte/profilo (parte culminante di quel rituale che i manuali di polizia chiamano “presa segnaletica”) rivela il desiderio di possedere e controllare il soggetto, trasferendolo su un piccolo dispositivo facilmente maneggiabile: il cartellino, sorta di spietata immagine di sintesi (fotografica, ma anche grafica e testuale) della persona umana.
La fotografia giudiziaria, ci è però drammaticamente familiare anche per un altro motivo: il discorso pubblico ha ben presto imparato a sfruttare e manipolare con profitto l’aura “oggettiva”, il presunto valore di evidenza scientifica del ritratto del delinquente, per esibirlo come “prova” e suscitare ogni giorno l’allarme intorno a un crimine sempre incombente, vicino e minaccioso. “Se cercate la Faccia del Male –ci dicono–, eccola lì”.
Evil Face - La faccia del male
A cura di Fabrizio Urettini & Studio Orange
Testi di: Ando Gilardi, Sergio Polano, Matteo Segna, Arnaud Velda.
Collaboratori: Stefano Bernardi, Alessandro Chinazzo, Paolo Guolo, David Sheen.
Sonorizzazione: Lorenzo Tomio.
Spazio Paraggi
Aperto dal mercoledì al sabato dalle 16.30 alle 20.00
Chiuso la domenica e i giorni festivi
Via Pescatori, 23
31100 Treviso
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