«Questa è una storia degli anni Settanta.
Allora c’era un movimento fatto di donne e uomini che pensavano di cambiare il mondo. In modo radicale. Con una rivoluzione.
Quelle donne e quegli uomini pensavano che cambiarlo potesse anche essere divertente. Anzi o era divertente o non valeva la pena. Tutto e subito. Non si poteva rimandare nulla a dopo.
La parte più radicale di quel movimento erano gli autonomi.
Poi quel movimento è stato preso in una morsa ed è rimasto stritolato. Molti si sono fermati o sono stati fermati. Molti dal movimento sono passati alle formazioni armate. Molti hanno pensato che l’unica giustizia era quella proletaria. Alcuni, non pochi, si sono pentiti, cioè sono diventati delatori.
È quindi anche una storia terribile. È una storia fatta di vivi, morti e morti ammazzati. È una storia dolorosa per il dolore arrecato e sofferto.
È una storia che narra di giovani. Io ora sono un uomo che va verso i sessanta. Ma mi rivedo giovane e penso: ce l’hanno fatta pagare ma ci siamo divertiti un casino.
Questa storia comincio a scriverla nel carcere speciale di Fossombrone nel 1982. Quaderno e matita.
Poi il quaderno me lo porto a Rebibbia, dove vengo trasferito.
Francone mi presta la sua Olivetti Lettera 22 e io ricomincio da capo. Il patto è chiaro: tutti i giorni lui vuol leggere e dare il suo giudizio: Hemingway, passabile, fa cagare. I “fa cagare” vengono subito strappati in faccia all’autore.
Il lavoro si rallenta di molto durante le udienze del processo. La scrittura langue. Nell’estate dell’84 ci dò la botta finale. Ma mi liberano e il legame con il mio spietato critico cessa. Il dattiloscritto me lo porto a Milano nei sacchi neri della spazzatura che raccolgono i miei effetti personali. Pubblicarlo? E da chi?
Poi Francone esce anche lui. Una sera di quindici anni fa mi porta a casa Sergio, detto Sergino perché ai tempi dell’autonomia era quasi un bambino. Sergio dice: mi piace un casino, siamo proprio noi.
Piano piano comincia a pubblicare singoli capitoli della storia su riviste, libri ecc. Poi l’anno scorso si fa vivo. E mi dice: pubblichiamo tutto. Io dico di sì. Eccola qua».
Paolo Pozzi (1949) si laurea in Sociologia a Trento nel 1972. Trasferitosi a Milano, milita nella componente dell’autonomia operaia che si raccoglie attorno la rivista «Rosso», di cui è stato redattore. Nel 1979 viene arrestato nell’ambito dell’inchiesta 7 aprile e sconta diversi anni di carcere. Oggi è dirigente di una società che si occupa di beni culturali.
Paolo Pozzi, Insurrezione
DeriveApprodi, 2007
pp. 208
ISBN 978-88-89969-23-6
€14
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