Per prima cosa buon Ferragosto a tutti. La puntata di questo mese esce, infatti, proprio nel giorno clou di questa estate, ma siccome una scadenza è una scadenza, eccoci qui in compagnia dell'ospite di questo mese. Si tratta di Giacomo Giorgetti, autore del romanzo L'uccisore di ombre (libri/5197). Un romanzo in un certo senso freddo, un po' in contrasto con questa calda calda estate.
Per prima cosa grazie Giacomo per aver accettato di partecipare a questa rubrica, pur sapendo che il romanzo personalmente non mi ha convinto del tutto, in modo particolare per alcuni aspetti, ma forse questa può essere anche l'occasione per rispondere a certe obiezioni.
Ben felice di avere uno spazio per ribattere alle critiche.
Partiamo dalla definizione dell'opera: secondo me si tratta di un thriller, anche piuttosto marcato per elementi e costruzione. Tu come lo definiresti?
Un noir. Niente a che fare col thriller, col poliziesco, col giallo o con lo spionaggio. Un noir puro e semplice.
Scusa, ma permettimi già di dissentire. Come dicevo poco fa il romanzo, secondo me manca di tutta una parte di concretezza e realtà e non c'è quell'andare a fondo, oltre la superficie della semplice vicenda. Il noir è per definizione un genere letterario che scava, alla ricerca dei lati oscuri… il tuo è dunque un noir?
Il noir non è per definizione un genere che scava, soprattutto nell'animo umano. Non per me, almeno. Se così fosse, come definiresti romanzi quali American tabloid e Sei pezzi da mille? Noir senza dubbio, ma nessun approfondimento psicologico, anzi. Analisi, semmai, dei rapporti di forza tra i personaggi, scansione delle vie del potere (istituzionale e personale). Anche questo è noir. Quello a cui fai riferimento tu è forse un modo di fare noir, non necessariamente il primo, e certamente non l'unico. Ma sulle definizioni, temo, si potrebbe andare avanti a disquisire ad aeternum.
I romanzi da te citati sono noir, senza dubbio, ma, permettimi, di spessore, non necessariamente psicologico, ma di spessore. Al di là delle definizioni, che forse lasciano il tempo che trovano, raccontaci da dove nasce l'idea di questa storia?
Il protagonista, Antoine, è fratello minore di Joshua Shapira (interpretato da Tim Roth in Little Odessa) e Vincent (Tom Cruise in Collateral), portàti alle estreme conseguenze. Il romanzo all'inizio doveva intitolarsi 99 casi ed essere composto di altrettanti capitoli, ognuno un omicidio (premeditato o no). Scrivendo si è tramutato in questa storia dall'impianto astratto, sorta di teorema con dimostrazione.
Teorema con dimostrazione di cosa?
Che l'invulnerabilità dell'uomo invisibile è più forte del potere "rizomatico", che è tipico tanto delle istituzioni quanto delle associazioni criminose. Alla fine, Antoine Crus (l'uomo solo, il fantasma) è più forte di Alvin Masters (il superboss con esercito e avvocati).
Da quello che racconti, sembra che il tuo scrivere non nasca da un'esigenza spontanea, da una necessità e forse da qui viene anche l'eccessiva costruzione dell'opera, che la rende poco naturale, cosa che secondo me è un po' la sua pecca.
Non mi risulta che i teoremi siano naturali. Nemmeno i romanzi, comunque. Un romanzo può dare l'impressione della spontaneità, ma è sempre qualcosa di molto costruito. Non è poesia, non è racconto. Se ciò sia una pecca, dipende da cosa si cerca. Chi vuole l'umanismo, i personaggi "belli" e credibili ("a tutto tondo"), è meglio che stia alla larga da L'uccisore di ombre. I personaggi, a parte il protagonista, sono figure bidimensionali – con qualche eccezione: Carlos, Thoreau, forse Andreas – che popolano un universo narrativo piatto come una scenografia teatrale. Quanto all'impressione che la mia scrittura non nasca da un'esigenza spontanea, è basata probabilmente sul consueto luogo comune che un romanzo per avere valore e spessore letterario deve mantenere un impianto psicologizzante, cioè approfondire le questioni del singolo e i dilemmi dell'interiorità. La necessità che mi spinge a scrivere è, ti assicuro, molto spontanea: è l'umanissimo bisogno di dare ordine alle cose e organizzarle in un tutto sensato che si chiama "mondo". Da ciò nasce ogni universo narrativo.
Secondo me in un romanzo devono esserci entrambe le componenti…
Credo sia questione di scelte individuali, di preferenze, forse di necessità. Il romanzo anti-umanista può sembrare freddo e distante, quasi cadaverico a chi è abituato all'impostazione soggettivistica ottocentesca (cioè il 99% dei lettori, a prescindere dal loro livello di istruzione e dalla sensibilità), ma non per questo cessa di essere romanzo.
Comunque permettimi una provocazione, perché per dimostrare teoremi non ti sei dato alla matematica, anziché alla scrittura?
Perché i teoremi matematici non hanno nulla a che vedere con la vita e con l'uomo. Sono perfetti, ma privi di senso. Quelli "esistentivi" (se mi si passa l'orrendo termine) sono invece meno perfetti, ma più sensati.
Tornando comunque a quanto dicevi poco fa. Tu sostieni che tutti i personaggi sono bidimensionali, tranne Antoine Crus, il protagonista. Ancora una volta non sono d'accordo
Meglio così, se no di che cosa parleremmo?
Secondo me anche lui, forse più di tutti gli altri, è piatto. È un uomo che non è un uomo. Non prova alcun tipo di sentimento, esitazione o altro. Va dritto per la sua strada senza mai porsi una domanda. Dov'è la sua complessità?
Nel teorema, che evidentemente tu non hai visto, il versante "umanistico" di Antoine è certamente piatto e irrilevante quanto quello degli altri. Ciò che lo distingue è la sua funzione all'interno della logica generale del romanzo: il suo incarnare l'estrema coerenza del calcolo. Il calcolo che da premesse, attraverso ragionamenti, porta a conclusioni, risoluzioni, azioni e risultati. Il romanzo sta tutto lì, nella sua costruzione, coesione e logica. Che poco piaceranno agli amanti dell'umanità, ma che dovrebbero almeno esser còlte come elementi di particolarità (se non di originalità) e di distinzione dalla gran parte dei racconti di genere.
Ma chi è Antoine Crus?
Banalmente, è una proiezione, in forma noir, di un'immagine di me: incarna l'infallibilità, il distacco, e quindi l'autonomia e l'invulnerabilità di chi non può essere raggiunto o colpito. Uno stato di grazia, al di là (o al di qua) dell'umano. Ma soprattutto, di Antoine amo e invidio l'invisibilità, la non-esistenza, il suo essere altro e altrove. Il non poter essere visti è il primo passo verso l'immortalità.
Anche in questo caso la vediamo in maniera assolutamente opposta. Secondo me la non esistenza, l'essere soli è esattamente lopposto dell'immortalità. È un modo per cominciare a morire anticipatamente.
Assolutamente d'accordo. È proprio questo il punto.
E allora temo di non capire…
Chi va verso questa immortalità (come lo stesso Antoine nel romanzo) rinuncia a tutto ciò che a noi rende la vita degna di essere vissuta, e lo fa in cambio dell'intoccabilità, dell'immunità al dubbio, alla distrazione, a ogni forma di tentennamento o debolezza della volontà. Questa condizione (lo "stato di grazia" di cui sopra) è una via a metà fra la vita e la morte (e Carlos glielo dice in uno dei loro incontri); qualcosa che si avvicina all'immortalità in quanto è al riparo dalle intemperie della vita e dalle sue incertezze (che poi, come si accennava sopra, costituiscono forse gli elementi più "umani" e quindi più rilevanti ai fini di un'esistenza sensata). Mi accorgo ora che questa discussione assomiglia moltissimo a quelle che Antoine e Carlos affrontano nel romanzo sullo stesso argomento; con me che sostengo la posizione del protagonista, e tu quella dell'amico-alleato.
Non ci avevo fatto caso, ma è vero: quando si dice immedesimarsi!!! Torniamo, però, al romanzo: secondo me l'unico momento, diciamo "umano", che il protagonista vive è il ritorno al suo paese d'origine. È vero?
Umano non direi. In Antoine non c'è niente di umano. Nemmeno nel romanzo, credo. È un momento di languore, quasi malinconico. Forse Crus è confuso, cerca qualche risposta per chiarirsi le idee e capire se ciò che lui è e ciò che fa sono qualcosa che è sempre stato lì o qualcosa che ha imparato crescendo, dopo aver lasciato il paese d’origine. "Umano" è un'altra cosa: è condivisione, compassione (in senso etimologico), vicinanza. Lui non è mai vicino a niente e a nessuno, vive (o sopravvive) in una sorta di vuoto esistenziale ed emotivo. In ciò sta la sua grandezza, e l'originalità del romanzo: nella titanica coerenza di questo atteggiamento, fino alla fine. La malinconia, in tal senso, è il sospetto della possibilità di qualcosa d'altro, di un nuovo orizzonte, nuovi significati, nuove prospettive.
La malinconia è rappresentata, in un certo senso, da Andreas, l'amico di Crus negli anni della giovinezza?
Diciamo che emerge nelle scene in cui Antoine parla con Andreas, ma è presente (la malinconia, o quanto meno il sospetto di essa) anche in quelle precedenti, quando Crus spiega le ragioni che lo hanno condotto in Brasile.
Il ritorno al paese di origine ci permette di parlare anche dell'ambientazione dell'opera. Il romanzo, pur essendo inserito nella collana I luoghi del delitto, non è ambientato in un luogo preciso. Al contrario il protagonista si sposta continuamente per il mondo. Non sarebbe stato più semplice ambientare la storia in Italia, che è il tuo paese d'origine?
Proprio per niente. Un'ambientazione italiana avrebbe comportato un confronto con la realtà, mi avrebbe costretto a parlare di luoghi e persone reali. Non era quello che volevo. Come ho già detto, L'uccisore di ombre è la dimostrazione – in forma romanzesca – di un teorema. Non matematico, bensì umano. Era quindi necessaria l'astrazione dalle determinazioni geografiche e culturali.
Una cosa inconsueta che mi ha stupito è che, al contrario rispetto alla maggior parte degli esordienti, nel tuo romanzo ho trovato una grande abilità di costruzione tecnica e stilistica, a dispetto di una mancanza forse di una componente creativa che ha penalizzato la trama.
Cioè molta logica e poco "cuore", come nel protagonista. La creatività, per come la vedo io, è costruzione e struttura. Credo sia un po' tardi per continuare a credere all'ideale romantico del genio creatore-creativo che tira fuori dal cilindro le invenzioni. Il romanzo è forma espressiva prosaica, oltre che prosastica. Non ha nulla di sacrale o lirico o magico. È un'architettura sapiente e consapevole. Se no, è un'altra cosa (magari splendida, ma un'altra cosa).
Quindi, secondo te, per scrivere un buon romanzo che componente di disciplina e che componente di talento sono necessarie?
Il romanzo è per due terzi struttura, per un quarto contenuti, e il resto stile. Quindi servono in primis disciplina e logica architettonica. Il talento dà forse un alito di vita all'edificio, che altrimenti rimarrebbe insipido e artificioso.
Ma la costruzione dell'opera, che tempi di gestazione ha avuto?
Un mese per la prima stesura, scrivendo un paio d'ore la sera. Poi tre settimane per revisioni cartacee e correzioni varie. Più l'editing prima di andare in stampa.
Visti i tempi piuttosto brevi, la stesura è stata un'operazione semplice?
Direi di no. Ogni pagina che scrivo è per me fatica erculea, e spesso lavoro di Sisifo, una lotta contro la mia tendenza alla sintesi e all'analisi, che mi facilita in fase di revisione e di critica, ma mi rende pesantissima la stesura, indipendentemente dal tempo che ci metto.
E come sei arrivato alla pubblicazione?
Ho spedito il romanzo a una decina di editori, scelti con metodo empirico: girando per le librerie di Verona e Bologna, guardando nel reparto "noir/giallo, etc." e segnandomi i nomi di quelle che erano presenti in più di un negozio. Poi, sul web, controllando il sito di ciascuna casa e contattandole una a una per accertarmi che accettassero inediti per la pubblicazione. Alla fine, la Robin mi ha proposto un contratto, abbiamo discusso e ho firmato.
Sei soddisfatto?
Non sono per niente soddisfatto di come hanno trattato me e il romanzo. Mi fermo qui per non entrare nella polemica, che presumo vecchia e già sentita.
Quindi cosa consiglieresti di fare a chi ha un romanzo nel cassetto?
Imparare il francese o il tedesco o lo spagnolo, scrivere in quella lingua e, appena possibile, darsela a gambe.
A questo punto in cui ci stiamo avviando alla fine, ti chiedo un buon motivo per leggere L'uccisore di ombre.
È un romanzo che evita i luoghi comuni narrativi e la prevedibilità, checché tu ne scriva nella recensione; un noir che non sconfina nel giallo o nel thriller, che non si camuffa. Utilizza molti topoi del genere, ma lo fa consapevolmente e deliberatamente. È anti-psicologico e quindi lucido, lineare, chiaro, sommamente coerente e coeso. Ha un protagonista che, sebbene ripetitivo nelle azioni e negli atteggiamenti, conduce la storia in una direzione inattesa e sfugge così alla trappola della prevedibilità e della banalità.
E infine chiudiamo con una domanda di rito: da grande vorresti fare lo scrittore?
Professionita, no. Vorrei scrivere con regolarità e pubblicare senza affanno. Arrotondare magari il magro stipendio. Ma non mi interessano le alte tirature né i soldi: condizionano la scrittura e io voglio essere libero di fare quello che ritengo giusto e sensato, senza pressioni esterne. Nel futuro immediato sto progettando un altro romanzo. Forse inizierò a scrivere in autunno o a fine anno. E spero di riprendere regolarmente la mia rubrica qui su TM (Il nero tra le righe, rubriche/il_nero_tra_le_righe/) che, fatalità, verte proprio sul concetto di noir. Per il resto, niente da segnalare.
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