Leggere questo romanzo è come andare sulle montagne russe senza cinture di protezione, e oltretutto mentre il vagone su cui siamo seduti sta andando a fuoco.

La strada della violenza (da recuperare nell'edizione originale Colorado Noir, o nella recente ristampa presso la già prestigiosa collana Il Giallo Mondadori presenta) è una storia al contempo molto americana e molto italiana, e ciò sia detto nella migliore accezione che questi termini possono avere nei confronti di un'opera di narrativa.

Molto americana, innanzitutto. Ossia veloce, scorrevole, con un ritmo furioso e martellante. Ma quel che vi scorre non è acqua fresca, bensì fuoco liquido, soda caustica versata su ferite aperte. Il noir allo stato puro, come ci viene consegnato dai grandi maestri della scuola anglosassone. Si legge d'un fiato, e il fiato lo si perde, ma è un dolore piacevole e irresistibile, tanto necessario quanto corrosivo.

Però è anche una storia tutta italiana. Italiana l'ambientazione - una Reggio Emilia che incarna alla perfezione la piccola provincia italiana con tutti i suoi giochetti di potere -, italiano lo stile, italiana la vicenda che si va a raccontare, e che scava impietosamente nei meccanismi della corruzione del nostro (cosiddetto) "Bel" Paese.

L'uccisione di due bambine è solo l'inizio di una storia agghiacciante, alla quale lavorano - con un armonico intrecciarsi di voci narranti - due improbabili esponenti delle forze dell'ordine: Maurizio Ferri, un agente del SISDE che lavora sotto copertura, e Lorenzo Rollei, un corrottissimo maresciallo della Guardia di Finanza.

Mauro Marcialis riesce nel difficile compito di farci scomodare Ellroy per definire la sua scrittura, una prosa violenta che rapisce e che tortura, e che pure fa sviluppare nel lettore sgomento una "sindrome di Stoccolma", tanto da farlo affezionare alla pagina fino alla fine del romanzo (e anche oltre).