Smokin’Aces, di Joe Carnahan, UFO estivo che merita, nonostante il caldo, una visita rispettosa. A prima vista (ma anche ad una seconda…) sembra girato da un emulo di Tarantino su una sceneggiatura di due emuli dei fratelli Coen, il che lo rende appunto un UFO in arrivo da altri mondi. La storia è quella ”protezione testimoni”, quanto mai abusata in passato, oggi un po’ meno e se di tanto in tanto riaffiora lo è per essere declinata nel suo aspetto “leggero”, che so, FBI: protezione testimoni con Bruce Willis…).
Insomma, c’è un ex illusionista, tale Buddy 'Aces' Israel (Jeremy Piven) deciso ad uscire dal giro della mafia che conta e pronto a testimoniare contro il suo capo Primo Sbarazza, cosa che fa girare il boccino a quest’ultimo che gli mette sulla testa una taglia da 1,000,000$, il che finisce con l’attirare nell’albergo dove Buddy Aces vive segregato, le più svariate tipologie di killer, da tale Elestrago (la Peste), uno capace di mangiarsi i polpastrelli pur di non farsi prendere le impronte digitali, a Soot Lazslo, un torturatore che pare uscito dritto da Hostel, più due squinzie una delle quali somiglia a Nikita (quest’ultima sparava dalla finestra del bagno, questa direttamente dalla stanza, ma stiamo lì…), più i Tremors, tre fratelli neonazisti usciti direttamente dall’Inferno, per finire con un misterioso Svedese. Mentre tutt’attorno alla stanza d’albergo infuria la madre di tutte le battaglie, l’FBI fa quello che può per raggiungere prima degli altri la suite di Israel e mettere in salvo il prezioso testimone. Molti saranno i caduti, e l’essere star, o qualcosa di simile, (Affleck, Liotta…) non è detto che aiuti.
La regia è virtuosa, capace di seguire tutto quello che accade anche in spazi strettissimi sempre più affollati di corpi e di colpi senza perdere di vista nulla (capito Michael Bay?). Ma ad essere virtuoso è il film stesso, con la continua alternanza tra efferatezze delle quali si compiace (un po’ troppo…), e momenti di vera e propria commozione-partecipazione al destino del singolo (quelle che funzionano meglio sono sempre quelle dove il killer di un istante prima si trasforma in figura soccorrevole che accompagna il moribondo verso il trapasso, esattamente come accade quando un killer vivo mette in bocca ad un morto delle parole, un duetto da ventriloquo che lascia il segno…). Non passabile sotto silenzio il twist ending che se di primo acchito sembra un po’ troppo arzigogolato per convincere davvero (variazione interessante sul tema dell’agente undercover…), in definitiva fa il suo dovere sino in fondo, cioè sparigliare le carte e gettare nuova luce sugli eventi senza dimenticarsi di lasciare spazio ad una scelta, quella di un’agente dell’FBI, che disgustato dal cinismo imperante sancisce come non sempre gli interessi della collettività debbano per forza prevalere su quelli del singolo. Unico rimpianto è il non sapere che fine fa lo schizzatissimo bambino affetto da ADHD, Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder (ecco perché il Ritalin…) vestito da karateka: sta in scena tre minuti eppure ruba la scena a tutti.
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