Marzo 1938
La voce della maestra Cedroni rimbomba, ampia e sonora come un tuono, nell’aula: - Gardelli, leggi il brano a pagina trenta del Libro di Testo, "Arriva il cieco"!
Attilio Gardelli si china leggermente sul banco, fa un’impercettibile smorfia per concentrarsi al massimo, quindi inizia a scandire bene le parole: - "Ticche, tacche, ticche, tacche… È Fausto, il cieco, che avanza picchiando il selciato col suo bastone. Ha gli occhi vuoti, ma è come se vedesse. Riconosce tutti, alla voce e al passo. Sa dov’è la Casa del Fascio, la Casa dei Mutilati, il Dopolavoro, e vi si reca da solo. Fausto ha sacrificato i suoi occhi alla Patria e non se ne rammarica: quando in guerra fu colpito da una scheggia di granata, egli aveva da poco veduto il Re mescolarsi ai soldati e spartire con loro il pane umile e benedetto della trincea."
La maestra fa cenno ad Attilio di interrompere la lettura: - Capite, bambini? - dice camminando impettita tra i banchi e lanciando occhiate affilate come coltelli. – Capite? Durante la Grande Guerra il nostro re, Vittorio Emanuele, ha combattuto e rischiato la vita come del resto il nostro amato Duce. Il sovrano e Benito Mussolini hanno sempre, ripeto sempre, dato l’esempio attraverso il coraggio e l’azione. Loro devono essere in cima ai vostri pensieri! Ci sono uomini che, nel corso dei combattimenti, hanno perso gambe, braccia, sono stati martoriati dalle bombe, si sono procurati orribili mutilazioni: eppure sono tornati a casa felici, sereni, consapevoli di avere fatto il loro dovere! -. La Cedroni tace per un istante abbracciando con uno sguardo la classe silenziosa e quasi atterrita, poi intima a Gardelli: - Riprendi a leggere dal punto in cui ci siamo fermati!
Il bambino frena l’emozione, che gli ha provocato il fiume di parole della maestra, e obbedisce: - "…Una sola cosa affligge Fausto: il non poter vedere la nuova giovinezza in camicia nera. Ticche, tacche, ticche, tacche: giunge alla casa di nonno Gianni, si ferma sotto l’oleandro, lì presso l’uscio, e picchia forte. Vittorio e Lunella gli si fanno incontro, in divisa di Figlio della Lupa e di Piccola Italiana. Egli se ne accorge. Posa le mani sul capo, per sentire se sieno cresciuti; poi tasta pian piano, quasi facendo una carezza, la mantellina dell’una, la camicia nera dell’altro, li bacia in fronte e dice: " Siete belli così. Che Iddio vi benedica!". E una lacrima gli scorre lungo la guancia."
Mentre torna a casa, Attilio ripensa con soddisfazione alle ore che ha trascorso a scuola. A differenza di tanti suoi compagni, lui ama leggere, immergersi nelle storie proposte dal Libro di Testo e si è ormai affezionato allo stuolo di personaggi (Gianni, Sandro, Vittorio, Lunella, Meuccio e tanti altri) che popolano quelle pagine. Sono contadini, onesti e laboriosi, che hanno bonificato le paludi; ragazzi obbedienti e pieni di buona volontà; donne che proteggono il focolare domestico e venerano il Duce; soldati che si sono fatti onore in Abissinia, portando la civiltà in quelle terre selvagge…
Ma il personaggio che lo ha più colpito è proprio Fausto, forse perché gli ricorda un cieco che abita a Calenzano: Cesare Rossetti.
Il poveraccio ha perso la vista a causa di uno scontro avvenuto durante la battaglia di Vittorio Veneto, nel 1918. Ma lui non vuole essere certo commiserato: tutt’altro! Dopo la guerra è vissuto a Bologna, fino al ’25, insieme a una sorella. Poi è tornato al paese, dove ha ritrovato vecchi amici e compagni di infanzia.
Attilio ha un’autentica venerazione nei confronti di Rossetti: è un uomo pieno di dignità, orgoglioso di avere fatto il suo dovere (esattamente come Fausto!), completamente autosufficiente, nonostante la menomazione. E poi sa raccontare storie strabilianti accadute in trincea e in battaglia: Gardelli lo ascolterebbe per ore, al Dopolavoro del paese, quando narra, ai conoscenti seduti ai tavolini, le imprese degli Arditi, le lotte furibonde alla baionetta, i gemiti dei caduti nella ‘terra di nessuno’.
Attilio pensa che, quel pomeriggio, potrebbe fare un salto al circolo ricreativo: ha voglia di fare qualche domanda a Cesare su quella gloriosa avventura; e del resto Rossetti è sempre gentile e disponibile con tutti, risponde con pacatezza, senza mai abbandonarsi a vanterie.
Certo, prima di uscire di casa, Attilio dovrà fare i compiti, ma non si preoccupa. La maestra ha detto che, domani, tutti i bambini della classe saranno interrogati su un componimento di Gabriele D’annunzio, un componimento dedicato al re. Ma lui, Attilio, lo ha già praticamente imparato a memoria, e mentre cammina verso casa ripete mentalmente quei versi:
L’han visto ovunque, grigio in mezzo ai grigi
soldati, a valle, ai monti, ai guadi duri,
testimone degli ultimi prodigi,
accanto ai vivi, accanto ai morituri
Attilio sospira. Non ha ben capito quella faccenda del "grigio in mezzo ai grigi" e non ha la più pallida idea di che cosa siano i "guadi duri", gli "ultimi prodigi", i "morituri". Però la maestra Cedroni ha detto che è una "composizione toccante". E lui è d’accordo: piena zeppa com’è di paroloni, è una bella poesia. Una bellissima poesia.
Verso le cinque del pomeriggio il Dopolavoro è affollato per lo più di operai e contadini che si scambiano pacche sulla spalla e bevono qualche bicchiere di vino. Attilio, che è corso fin lì da casa, vede che Rossetti è seduto a un tavolino insieme a un suo vecchio amico, Lazzaro Bertini, detto il Bazza.
I due non parlano della Grande Guerra, rievocano le battute di caccia che facevano in gioventù.
- Ti ricordi quando andammo all’Osmannoro? – chiede Bertini a Cesare. - Prendemmo una barca e girammo in lungo e in largo per il padule. Beccammo un sacco di germani, ma Gino, che era grasso come un porco e pesava più di un quintale, cadde in acqua e per poco non affogò!
Il cieco ridacchia aggiustandosi i grossi occhiali neri: - Me lo ricordo, me lo ricordo! Non mangiò per una settimana. Disse che aveva fatto un fioretto alla Madonna perché lo aveva salvato dall’annegamento.
- Già, ma, voto o non voto, non dimagrì di un etto! - aggiunge il Bazza ghignando. – E poi non imbracciò più un fucile in vita sua!
- Io, comunque, preferivo cacciare fagiani e uccelli dalle parti di Legri - continua Rossetti. - Non tornavo mai a casa a mani vuote.
- C’erano tanti capanni ben nascosti, soprattutto vicino al Molino della Rolla.
- Ce ne sono ancora. Me lo ha detto Giorgino, ci va spesso… beato lui – sospira il cieco.
Per un attimo sembra abbandonarsi alla malinconia, ma si ricompone subito: si alza in piedi, afferra il bastone e con voce energica si congeda dall’amico: - Si è fatto tardi, devo andare – dice. - Ci vediamo domani, Bazza - e si avvia verso l’uscita scansando, con tranquilla abilità, tavoli e persone.
Attilio, che ha seguito la conversazione tra Rossetti e Bertini, è un po’ deluso. Pensava di poter avvicinare Cesare e fargli un mucchio di domande sulle battaglie lungo l’Isonzo e sul trionfo di Vittorio Veneto, invece si è dovuto accontentare di ricordi che spaziavano tra le paludi della piana e i boschi di Legri.
Rimane per qualche istante impacciato, fermo vicino allo spaccio del Dopolavoro, poi esce dal locale. Scorge Cesare che ha imboccato una via laterale e cammina sicuro, agitando davanti a sé il bastone. Ma improvvisamente accade qualcosa di strano: da un’auto scendono due uomini grandi e grossi come Primo Carnera, che affiancano Rossetti. Gli parlano gesticolando in modo aggressivo; uno gli pone una mano sulla spalla e lo sospinge: pare che gli intimi di riprendere a camminare per la strada.
Il ragazzo sente rimescolarsi il sangue: quegli energumeni vogliono fare del male a Cesare? Sono comparsi dal nulla per assalire, in modo vigliacco, un cieco che ha perso la vista in guerra?
Lui, il balilla Attilio Gardelli, non lo permetterà!
Decide di seguirli e si accorge che, attraversata la via che stava percorrendo il cieco, i due Carnera indirizzano Cesare verso un viottolo che taglia dei campi abbandonati, appartenuti un tempo alla famiglia Cinelli. Il ragazzo non imbocca la stradicciola, ha paura che i loschi figuri si accorgano della sua presenza: così attraversa i terreni incolti, ricoperti ormai da sterpaglia, facendo attenzione a non fare rumore.
I tre sbucano nella piazzetta vicino alla chiesa. A quell’ora non c’è nessuno in giro, e il ragazzo si meraviglia quando vede che i due giganti e Cesare entrano nella casa-bottega di Ciro Gattoni. Attilio conosce bene Gattoni: è un parente, molto alla lontana, di suo padre, un abile tipografo, e soprattutto una bravissima e simpatica persona (anche se, a dire il vero, non lo ha mai visto indossare la camicia nera): ogni tanto gli regala mentine e perfino qualche albo de L’avventuroso o di Dick Fulmine.
Perché quegli uomini hanno condotto Rossetti da Ciro? Cosa c’è sotto?
Il ragazzino soppesa la situazione, poi decide di penetrare nella bottega. Del resto conosce bene la strada: salta il muretto che delimita l’orto annesso all’abitazione del tipografo; aggira un paio di aiole e si arrampica su una rimessa di legno, fino a raggiungere la finestra del primo piano. In un battibaleno sguscia all’interno della casa: tende l’orecchio e gli sembra di udire delle urla provenienti dal basso. Allora scende silenzioso la rampa di scale che conduce nel locale della tipografia. Si acquatta dietro un tenda e da lì scorge una scena che lo fa raggelare: i due Carnera stanno legando a una sedia Gattoni, mentre Cesare lo picchia violentemente col suo bastone.
- Sei un cane bolscevico! - urla Rossetti mentre sventola con la sinistra dei volantini. – Questi li hai stampati tu! Ecco chi fa propaganda ai rossi, qui a Calenzano! Ma adesso la paghi cara!
- Infame! Spia! – riesce a gridare Ciro, nonostante che un abbondante fiotto di sangue gli fuoriesca dalla bocca.
Cesare si toglie con rabbia gli occhiali e il piccolo Gardelli, dal suo nascondiglio, coglie un particolare sconvolgente: Rossetti non ha gli occhi bianchi e vuoti, le sue pupille sono perfettamente integre. Non è cieco! E il suo sguardo mette paura, lancia schegge di odio e di crudele soddisfazione: - Infame sei tu! – sibila. – Sai cosa facciamo ai vermi comunisti come te? Lo sai? Li schiacciamo!
Dopodichè Rossetti fa un cenno perentorio ai due gorilla che iniziano a massacrare di botte Gattoni.
Attilio non ce l’ha fatta. Gli è mancato il coraggio, non è riuscito a intervenire, ad aiutare in qualche modo Ciro. La paura e lo sbigottimento lo hanno sopraffatto: è corso via, facendo a ritroso il percorso compiuto per penetrare nella tipografia. Si è precipitato a casa piangendo, e ha riferito tutto quello che ha visto ai suoi genitori.
La loro reazione suscita ancora più spavento nel bambino: li vede impallidire sconvolti, tremano entrambi come se fossero assaliti dalla febbre. Prima lo implorano, quindi gli ordinano con durezza di mantenere il segreto. Non deve aprire la bocca con nessuno: - Sennò quegli uomini ammazzano anche noi! Hai capito? Ci uccidono come bestie!
Attilio se ne va a letto, in preda a un’angoscia tremenda. Quel giorno ogni certezza è crollata, non è più sicuro di niente: chi sono davvero gli eroi? Di chi ci si può fidare? Perché Cesare fingeva di essere cieco, e perché si è accanito contro un uomo buono come Ciro?
Le domande si rincorrono come formiche impazzite dalla paura: il bambino si rivolta nel letto, piange e si lamenta, finché, sfinito, sprofonda nel sonno.
Si sveglia la mattina dopo più adulto, più grande, più infelice.
A scuola, interrogato dalla maestra Cedroni, non ricorda più un solo verso della poesia di Gabriele D’Annunzio.
Novembre 1944
Il giovane, col tascapane sulle spalle, attraversa rapido i campi nei pressi del Molino della Rolla, poi, inoltrandosi nel bosco, rallenta il passo finché individua, ben nascosto in mezzo alle frasche, il capanno dei cacciatori. Si avvicina con cautela e picchia per due volte sulla porta costruita con delle rozze assi di legno.
- Chi è? - dice una voce.
- Sono il nipote della Neda. Ti porto da mangiare – bisbiglia il giovane.
La porta si apre e compare Cesare Rossetti: - Ma tu… - non riesce a terminare la frase. Dai cespugli balzano quattro uomini che gli si scagliano contro e lo immobilizzano.
- Ti abbiamo trovato Rossetti! - esclama il capo del gruppo, un partigiano sui trent’anni, col volto incorniciato da una folta barba bruna.
- Lasciatemi stare, non ho fatto nulla!
- Non hai fatto nulla, brutto bastardo? - sbraita il partigiano. – Sei tornato a Calenzano nel ’25 e nessuno sapeva cosa ti fosse successo. Ti sei presentato come mutilato di guerra, e in realtà eri diventato una spia fascista. Fingendoti cieco hai carpito la fiducia di un sacco di gente che hai fatto arrestare o addirittura ammazzare: Ciro Gattoni, ma anche il dottor Pini e il farmacista Prandelli. Ce li hai tutti sulla coscienza. E siccome non sei stato capace di tagliare la corda in tempo, ora ti presentiamo il conto!
Rossetti tace, si limita a storcere la bocca in una smorfia e a fissare un punto per terra.
Il partigiano si rivolge al giovane: - Attilio, puoi andare. Ci pensiamo noi a questa carogna.
Gardelli fa un cenno con la testa e si allontana. È contento di essere riuscito a scoprire il nascondiglio di Rossetti. Qualche settimana prima si era ricordato della conversazione tra il finto cieco e il Bazza al Dopolavoro, quando i due avevano parlato dei capanni da caccia nei pressi di Legri. Che Rossetti si fosse nascosto in quella zona che conosceva a menadito?
Attilio si era spostato in continuazione con la sua bicicletta; aveva perlustrato a piedi, per giorni e giorni, i boschi vicini al Molino della Rolla e alla fine si era fatto un’idea precisa di dove fosse finito l’assassino di Ciro.
Il giovane è soddisfatto, ritiene di avere assolto a una missione di giustizia e, mentre sente esplodere alle spalle, in lontananza, dei colpi di pistola, pedala velocemente verso casa.
La sua abitazione è vuota, suo padre è morto in guerra e sua madre, impazzita dal dolore, si è lasciata spengere poco a poco. Il giovane entra nella sua camera e si stende sul letto con gli occhi fissi verso il soffitto. Una lacrima sta rigando in questo momento il suo volto: è molto che non rientra a casa, troppi brutti ricordi sono legati a quelle mura. Forse sta pensando a sua madre, forse si sente solo in quell’ambiente vuoto: pensieri tristi si affollano nella sua mente come nuvoloni neri in una fredda e livida giornata di inverno. D’un tratto però un raggio di sole si fa spazio fra quella densa cortina di nuvole: Attilio pensa che i partigiani lo considerano uno di loro; per mesi è stato la loro staffetta più veloce, senz’altro la più abile. Il ragazzo smette di piangere: si sente orgoglioso di aver salvato tante vite e poi è certo di avere tanti amici, persone sincere che lo aiutano e lo aiuteranno sempre.
Mentre si tira su per sedersi sul letto un po’ rincuorato, scorge in un angolo della stanza la sua vecchia cartella delle elementari. D’istinto si alza, la prende e la apre: si ricorda di avervi lasciato qualcosa che lo ha tratto a lungo in inganno. E infatti eccolo lì: il Libro di Testo delle elementari, la "bibbia" della maestra Cedroni. Chissà perché lo ha conservato così a lungo? Forse non ha avuto il tempo di disfarsene perché la bufera spaventosa della guerra lo ha travolto, lo ha fatto crescere improvvisamente.
Ora è giunto il momento di chiudere definitivamente con il passato che gli ha creato solo sofferenza. Si reca al cesso con il libro in mano. Da una mensola a muro prende una piccola bottiglietta che contiene dello spirito, spinge il libro nel buco del gabinetto alla turca, lo cosparge con il liquido, quindi accende uno zolfanello e contempla il fuoco che divora rapido le pagine.
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