Il plot è quello, mutatis mutandis, di un thriller à la Hitchcock, con una donna qualunque, Claudia, che dopo aver ospitato per qualche giorno Olga, una giovane ucraina, s’improvvisa detective allorquando Olga improvvisamente sparisce. Ma Come l’ombra (il verso di una poetessa ucraina che funge da didascalia finale…) di Marina Spada non è o più semplicemente non vuole essere un thriller. Somiglia strettamente ad un gorgo anomalo, che proprio sul più bello, quando cioè il giro diventa più stretto, improvvisamente cambia direzione assumendone un’altra, sotto forma di un viaggio alle origini (ma non di Claudia, bensì di Olga…), per quanto anche il viaggio in sé non rappresenti in realtà nulla di veramente concreto in termini fattuali visto che piuttosto che aprire nuovi orizzonti (una soluzione al mistero?) rimane sospeso (come sospeso è in fin dei conto il film intero). Forse, anzi senza forse, nel complesso c’è più regia che storia (improntata su legami deboli…), motivo questo magari sufficiente per decidere di dargli un’occhiata, tempi di permanenza nelle sale permettendo. Si diceva regia: tradotto significa, ad esempio, rifuggire il campo-controcampo nei dialoghi (anche se la posizione dei personaggi si presterebbe…), usare molti piani fissi, non necessariamente con al centro la persona il che significa piazzare nel fuori campo parte della narrazione, filmare scegliendo di interporre tra cinepresa e personaggi diaframmi (sotto forma di vetri), abbassando volutamente il ritmo fino quasi a sospenderlo, scelta quest’ultima che per alcuni potrebbe risultare alla lunga insopportabile. Alcuni hanno visto in Come l’ombra tracce del cinema di Antonioni ma, aggiungiamo noi, anche tracce di cinema asiatico (Tsai Ming-liang).