Pubblicato dalla casa editrice Pisani, da tempo è attenta alle letterature in lingua cinese, con il titolo La moglie del Macellaio, il romanzo Sha Fu (letteralmente “Uccidere il proprio marito”) è stato scritto dall’autrice taiwanese Li Ang nel 1983 e ancora oggi non smette di far discutere per via della sua violenza, e probabilmente anche per il fatto che sia stata una donna a scriverlo, in un’epoca ancora lontana dalla relativa liberalizzazione dei costumi di cui Taiwan è stata protagonista dagli anni ’90 in poi. Li prende spunto da un fatto di cronaca, con il cui resoconto dà inizio al romanzo, per tracciare la storia di una funerea cancellazione di sé e della propria identità, in cui la protagonista Lin Shi finisce per essere intrappolata.
Traumatizzata dalla morte della madre, scoperta con un soldato con cui forse ha giaciuto in cambio di cibo e successivamente legata a delle colonne e picchiata a sangue per espiare la sua colpa, la piccola Lin Shi, che già era orfana di padre, si ritrova a dover vivere a casa dell’avaro zio, che non vede l’ora di sbarazzarsi di lei dandola al miglior offerente. L’occasione non tarda a presentarsi: il prescelto sarà Chen Jiangshui, macellaio di un paese limitrofo che potrebbe garantire un rifornimento di carne a volontà per la famiglia degli zii. Lin Shi non viene ovviamente consultata sull’ipotesi del matrimonio, anzi, viene semplicemente considerata alla stregua dei maiali che Chen uccide al mattatoio. Il contratto di matrimonio diventa dunque a tutti gli effetti un baratto fra pezzi di carne, tant’è che lo zio si rende conto che “scambiare quei due etti di carne che Lin Shi aveva addosso con mezzo chilo buono di porco era stato davvero un ottimo affare.” E la carne e il cibo in generale rappresenteranno da quel momento in poi una costante quasi spettrale nella vita futura di Lin Shi: non soltanto il suo nuovo marito ha degli “occhi da maiale”, ma la vita stessa che conduce è permeata dalla presenza del sangue e dei maiali. Ogni notte l’uomo abusa di lei con violenza fin quasi a spezzarle le ossa e a farla gridare, poiché nulla al mondo lo eccita di più delle urla lamentose simili a quelle degli animali sgozzati; forse neanche l’affondare il coltello nella carne delle bestie e afferrarne il sangue palpitante è altrettanto essenziale per lui. Lin Shi, pur traumatizzata dal nuovo aspetto che la sua vita ha assunto di colpo, non può fare altro che rimanersene in silenzio e sperare che il giorno arrivi presto scacciando via la presenza del marito. Sprovveduta e completamente priva di riferimenti per poter affrontare la vita e le sue crudeltà, Lin Shi non si pone ancora il problema di fuggire dalla sua condizione, ma cerca di conviverci come può, cucinando e cercando di comportarsi da brava moglie. Le cose però non accennano a migliorare, anzi, Chen continua ad abusare di lei senza sosta, bevendo, imprecando e offendendola in tutti i modi come fosse un animaletto di poco conto, togliendole quei pochi piaceri che potrebbe avere in una vita già misera finché della sua figura non rimane altro che “un gambero seccato dal vento”, tutto rannicchiato in se stesso come un guscio vuoto, privato di ogni dignità e presenza. La vicina di casa, la vecchia zi’ Ah Wang, sembra donarle momenti di consolazione dandole un unguento per alleviare le ferite, ma la gentilezza della donna cambierà ben presto volto in qualcosa di molto più infido. Un giorno, Lin Shi sente proprio la vicina, che l’aveva introdotta alle altre donne del villaggio, inveire contro di lei dandole della donnaccia per via delle sue urla notturne, secondo lei da vera insaziabile. Lin Shi capisce di non avere nessuno di cui potersi fidare, e cerca di rifugiarsi nelle cose di tutti i giorni, evitando le altre persone: alleva degli anatroccoli, ma Chen arriva a toglierle anche quell’effimero piacere uccidendoli tutti all’istante. La vita di Lin Shi diventa una vera e propria discesa negli inferi della cancellazione di sé, operata dalle azioni del marito e che non trovano alcuna resistenza perché la vita di Lin Shi è probabilmente finita nell’istante in cui i suoi occhi hanno visto la madre sanguinare legata alle colonne.
Ed è proprio quell’istante, apparentemente cancellato dalla memoria come tutti i momenti della sua vita successiva hanno cancellato la sua personalità, a riaccendere un barlume di reazione vitale in Lin Shi: ormai disperata, privata dal marito perfino del cibo, la ragazza si reca dai pescatori pregandoli di offrirle del lavoro. Venutolo a sapere, Chen dapprima la picchia, poi la porta con sé al mattatoio per insegnarle a sventrare i maiali e guadagnarsi da vivere come lui. L’uomo conosce soltanto la barbarie del sangue e mostra l’atto di uccidere animali alla moglie come fosse la cosa più naturale al mondo. Ma la vista di quel sangue, così uguale eppur così diverso da quello mescolato alla carne mangiata nelle pietanze di casa, scatena i ricordi più funesti in Lin Shi, che reagisce con l’unico modo a lei conosciuto: pregando per liberarsi dell’influsso malefico del marito. Finché tutto non finisce il tragedia, nel momento in cui l’uomo rievoca lo spettro della madre morta di Lin Shi: la ragazza rimane annebbiata dalla storia di sangue ormai inscritta dentro di sé e squarta il marito in più pezzi mentre lui dorme ubriaco.
Il titolo italiano del romanzo, molto più calzante dell’originale nel suo far gravitare il nucleo di senso attorno a colei che commette l’omicidio, piuttosto che all’omicidio in sé (come appunto l’espressione sha fu darebbe a intendere), restituisce giustamente un’identità e una verità alla donna, cancellata da una cultura patriarcale che la vede succube sempre e comunque. In tal senso, forse, sarebbe corretto individuare nella lettura in chiave femminista che alcune fruitrici europee hanno dato del romanzo una verità imprescindibile. Nella prefazione all’edizione italiana, Li Ang stessa ricorda come una lettrice tedesca ad esempio le abbia mosso una critica sulla mancanza di lucidità che l’atto omicida riveste nella vendetta compiuta da Lin Shi. A bene vedere, però, ciò che sottende alla parabola discendente di questa donna “assente” a se stessa descritta da Li Ang non è il compimento di una vendetta, bensì il trionfo della legge del più forte. Cosa ancor più degna di nota, e che ci allontana ulteriormente dal titolo originale e dal suo porre l’accento sulla figura del marito, non è tanto il sistema di valori imposto dal marito–padrone a trionfare, quanto piuttosto il tacito asservimento ad esso da parte delle donne, tant’è che l’unica a mostrarsi veramente indifferente e quasi superpartes rispetto all’accaduto è proprio zi’ Ah Wang, la vecchia megera che abita accanto a Lin Shi e al macellaio e che, dispensando giudizi morali sulla vita altrui dopo aver celebrato l’accondiscendenza come bene ultimo prezioso di ogni donna, arriva a incarnare la subdola e purtroppo atavica complicità di molte donne alla barbarie che le relega al ruolo di mute serve incapaci di intendere e soprattutto di volere. Un libro di certo sgradevole ma necessario, durissimo e impietoso nel suo voler denunciare una condizione di schiacciante inferiorità della donna e, più in generale, dei più deboli, all’interno di una società che non dà alcuno scampo a chi non sa accettare le regole del più forte.
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