Dopo quattro anni passati da infiltrato negli ambienti malavitosi hongkonghesi, il poliziotto Harry-Sin (Nick Cheung) fa fatica a rientrare in servizio di pattuglia. Non soltanto la vita da ‘regolare’ in distretto gli risulta difficile, anche per via della vicinanza di Lung (Anthony Wong), collega dai modi piuttosto violenti con i criminali, ma anche perché il ricordo della vita precedente passata fra boss mafiosi ed entraîneuses persiste nella sua memoria. L’amicizia con il padrino Dark (Francis Ng), in particolare, e la sua successiva cattura durante la consegna di una grossa partita di droga, perseguita Harry in ogni momento della giornata, e la sua nuova vita diventa subito un continuo passaggio dal presente al passato, che il regista evidenzia grazie a una serie di flashback dal ritmo serratissimo, servendosi per lo più del potere evocativo di alcune scene, rimaste indelebili nella memoria di Harry, e che si ripetono con lievi differfenze nella vita da poliziotto di pattuglia. Come quando Lung tortura un criminale sotto i suoi occhi, ed Harry ripensa a una scena analoga in cui era lui stato lui stesso vittima della violenza di Lung. Oppure il bellissimo parallelismo fra i due bambini, a cui Harry si ritrova a far compagnia rispettivamente in due occasioni diverse, la prima in compagnia di Dark, la seconda con Lung. I metodi di mafia e polizia sembrano molto simili fra loro, almeno agli occhi annebbiati di Harry, eppure i due bambini vedono le cose in maniera differente: per il primo, i poliziotti sono buoni, ed è per questo che da grande vorrà fare il criminale; per il secondo, invece, i poliziotti sono cattivi, e quindi sarà proprio quella la sua professione da grande. E Harry, cosa ha scelto di essere? Dimenticare Dark e gli amici di un tempo è davvero così facile, o il prezzo da pagare per diventare un buon poliziotto è troppo difficile da ottenere?
Già regista di film inquietanti e violentissimi come The Untold Story o Ebola Syndrome, in On the Edge Herman Yau si affida a una costruzione narrativa interessante e ben congegnata. Peccato per la sequenza finale, troppo tendente al tragico rispetto al resto del film, più orientata sul cupo e sul nero che non sul drammatico. Delude in particolare il personaggio di Anthony Wong, la cui violenza latente resta sempre (e anche giustamente) sul punto di esplodere, ma che poi finisce per scivolare nel retorico del compassionevole. Apprezzabile, comunque, il punto di vista da cui il regista intende analizzare la storia, di per sé non certo originale, concentrandosi sul conflitto irrisolto fra l’identità acquisita e quella posticcia o presunta tale. Convincente l’interpretazione di Nick Cheung e carini i titoli di testa confusi e psichedelici, che forse vorrebbero rievocare la strana ambiguità con cui Harry si trova a dover fare i conti, quella sottile linea di confine fra il nero e il bianco (Hak Bak Do in cantonese, o Hei Bai Dao in mandarino, allude proprio alla contrapposizione fra i due colori), la malavità e la legalità, l’amicizia e il dovere, che rischia di spostarsi continuamente, mandando in frantumi ogni certezza.
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