Byung–doo (Zo In–sung) è un ventinovenne inserito nell’ambiente malavitoso di Seoul. Suo capo diretto è il boss di medio rango Sang–Cheol (Yun Jae–moon) che a sua volta prende ordini dal capo massimo Hwang (Cheon Ho–jin). Byung–doo non è ancora riuscito a trovare il giusto sponsor che possa fare decollare davvero la sua carriera, ma l’occasione non tarda a presentarsi: Hwang vorrebbe che uno dei suoi uomini elimini in completa discrezione un avvocato scomodo che gli dà filo da torcere, e Byung–doo si offre di farlo per lui promettendo silenzio assoluto sull’operazione. Ma il futuro braccio destro di Hwang non ha fatto i conti con un imprevisto, che presto riporterà davanti ai suoi occhi l’assassinio da lui compiuto.  Min–ho (Namgoong Min), amico d’infanzia e aspirante regista, gli chiede infatti consiglio su come poter realizzare una sceneggiatura credibile ambientata nel mondo dei gangster. Ma Byung–doo non sa ancora che sarà proprio quest’amicizia a dargli del filo da torcere.

La trama del film coreano A Dirty Carnival di Yoo Ha potrebbe a prima vista sembrare molto banale e risaputa, farcita com’è di elementi tipici di certo cinema incentrato sul mondo della malavita (e ovviamente verrebbe subito in mente Scorzese). Yoo Ha, però, riesce a raccontare il dispiegarsi degli eventi con sguardo originale, riuscendo non soltanto a dosare in maniera esemplare gli elementi comici (le visite di Byung-doo e compagni a casa dei debitori o le cene con i compagni stessi)  con quelli più palesemente violenti (lo scontro iniziale tra bande nel fango o la superba sequenza dell’assassinio di Sang-Cheol durante un matrimonio), ma anche a creare un grottesco gioco di specchi fra realtà e finzione attraverso la presenza del regista Min-ho, il cui intervento realizzato a baluardo dell’innocenza dell’arte finisce invece per ribadire come nessuno, nella vita come nell’arte, è mai innocente, anzi. Forse è il filmare stesso, che cattura ogni elemento possibile della realtà, a prosciugare la vita della sua innocenza. L’intento, neanche troppo recondito, di Yoo Ha sembra essere proprio questo: accostare alla sarabanda di tradimenti, corsi e ricorsi dell’ambiente malavitoso le velleità artistiche di un regista,  per dimostrare come entrambi gli universi sia dettati dall’istinto di sopravvivenza. Perché lo spettacolo - il carnevale del titolo, in tutte le sue accezioni possibili sia nella realtà mafiosa che nella sua finzione cinematografica - deve continuare. Nulla può far cessare lo scorrere incessante degli eventi e del potere, né l’amicizia né tanto meno la lealtà. In tal senso, memorabili in quanto vera cifra stilistica del film sono le numerose sequenze apparentemente secondarie dedicate al karaoke, passatempo orientale per eccellenza, che diventa nel contempo simbolo della volgare sarabanda del potere, strabordante e strafottente come i criminali tatuati e panzuti che si susseguono sul palco per eseguire mielose canzoncine d’amore, e anche ipotetico momento di reale unione della “famiglia”, termine che racchiude la fiducia che Byung–doo ripone nel microcosmo mafioso di cui ha deciso di far parte. Che cos’è una famiglia? - dirà infatti più volte ai suoi compagni - Un gruppo di persone che mangiano dalla stessa bocca. Un tavolo imbandito di cibo e circondato da una serie di persone affamate. Che finiscono per cibarsi gli uni degli altri, forse non solo metaforicamente.