Red Road, dell’esordiente scozzese Andrea Arnold, squaderna il suo contenuto su tre fronti. I primi due, teorico e pratico, s’integrano senza troppo fatica, mentre riguardo il terzo (le condizioni produttive) è presto per dirlo. La parte teorica è quella che visto il lavoro di Jackie (Kate Dickie), addetta alla consolle di una sala di controllo visiva chiamata Occhio della città, da dove scruta in pratica una vasta porzione di territorio cittadino dal centro alla periferia, chiama direttamente in causa la visione mediata (da telecamere) opposta a quella diretta, cioè quella che insorge quando smontata dal lavoro Jackie si aggira tra quegli stessi luoghi di cui ha avuto conoscenza attraverso uno degli innumerevoli monitor, finendo con l’imbattersi in persone e situazioni (l’uomo col cane al guinzaglio) che ha già visto nel “prima” digitale. La parte pratica invece, ha inizio nel momento in cui uno dei monitor le fornisce l’immagine di un uomo che scopriremo avere avuto in passato un impatto devastante nella sua vita. La parte produttiva infine è quella che vede Read Road (un complesso residenziale di Glasgow risalente agli anni ‘60 composto da due casermoni di ventisei e ventotto piani completati da una serie di torri per molto tempo le più alte d’Europa, complesso che a quanto si vede sorge in mezzo al nulla con buona pace per chi ci vive…), come prima parte di un trittico ideato da Lars Von Trier e dai produttori e scrittori Andres Thomas Jensen e Lone Scherfig, trittico che ispirandosi all’antico Dogma prevede limiti ben precisi riguardo alla lavorazione dei singoli episodi: la regia affidata a tre esordienti, l’utilizzo costante dei sette personaggi creati da Jensen e Scherfig in ognuno dei tre capitoli, le location, tutte scozzesi, un massimo di sei settimane per le riprese. Giudicato come una versione “digitale” di La finestra sul cortile (Alberto Crespi sull’Unità), il film della Arnold ha sicuramente presente il capolavoro di Hitchcock, ma al tempo stesso sa come discostarsene così da non esserne una replica e basta. Ciò avviene grazie ad una consistente componente di interazione diretta dell’osservatore/Jackie nel mondo che prima si era limitata ad osservare (non che ciò nel capolavoro di Hitchcock fosse del tutto assente, solo che avveniva per interposta persona, con Jeffries/James Stewart che incaricava Lisa Carol/Grace di agire in vece sua). L’ingresso nel mondo reale di Jackie è a fini quanto mai pratici, guidato com’è da un desiderio di vendetta che pare, almeno all’inizio, non conoscere freni. Una delle possibili chiavi di lettura del film sembra essere quella dello scarto tra mondo “restituito attraverso dispositivi elettronici” (asettico, silenzioso e che pare fasullo…) e mondo “vissuto” (animato, rumoroso, molto diverso da come appare nei monitor); nel primo Jackie è la padrona assoluta (può decidere cosa vedere e cosa no, cosa zommare e cosa trascurare (a tutti gli effetti un vero e proprio lavoro di regia e di montaggio), nel secondo le cose sono diverse e le scelte che appaiono irreversibili non è detto che lo siano. Red Road gioca bene le sue carte, e lungi dall’essere un’infinita mise en abîme col rischio alla lunga di diventare stucchevole, lavora bene sulle attese, sa portare il cast ad un’adesione pressoché totale alla storia, sa unire all’aspetto teorico larghe fette di realismo che era un po’ di tempo che non capitava di vedere (non ultimo il modo come tratta il sesso, in una scena che ricorda molto da vicino, sul piano del realismo e della crudezza quella di Intimacy – Nell'intimità).