Nicola rilesse il messaggio almeno una decina di volte, piangendo come un bambino e maledicendo il giorno in cui aveva conosciuto la scrittura. Era colpa della sua passione e della sua incredulità se adesso Jessica stava sdraiata sul lettino dell’obitorio fredda come l’acqua in cui era affogata. Si chiese se aveva sofferto, se lui avrebbe potuto davvero fare qualcosa o se invece aveva ragione il brigadiere e mille altre domande. E si chiese perché a lui, che aveva trovato in Jessica e in Retrogusto la realizzazione di tutti i suoi sogni. Ora non aveva più nulla, quel bastardo gli aveva strappato tutto. Jessica era morta e anche Emma doveva esserlo, perché non la sentiva più né ridere né piangere. E con loro erano morti anche Fabio, Diego, Canicola, Rico e tutti i personaggi del nuovo libro che non aveva titolo e forse non lo avrebbe avuto mai. Come la sua vita. Ripensò al successo, a Mauro che aveva creduto in lui e alla casa editrice che gli aveva costruito attorno un mondo fatto di successi e sicurezza. Come quella volta in cui il web master gli consigliò di scrivere nella home page del suo sito personale di non mandare manoscritti inediti alla sua attenzione perché non avrei il tempo di leggerli tutti e, soprattutto, mi privereste della libertà di scrivere le mie storie. Se dovessi in futuro scrivere di un argomento già affrontato da un autore in uno dei manoscritti che mi ha spedito, nessuno poi gli toglierebbe dalla testa che io gli ho rubato l’idea. Non è presunzione, ma tutela per i miei e i vostri diritti di scrittori. In bocca al lupo.

Nicola Portese.

Nicola si precipitò a casa, correndo fin quasi a farsi scoppiare il cuore. Non si fermò nemmeno a chiudere la porta, si infilò in un piccolo ripostiglio e accese la luce. Lo scaffale era pieno di involucri bianchi e gialli tutti sigillati, ognuno recante il suo bel timbro postale. Li prese e li aprì uno ad uno con smania feroce, ossessionato da quel pensiero che una volta arrivato aveva scacciato momentaneamente anche la consapevolezza di aver perso per sempre Jessica.

Lo trovò poco dopo dentro un pacco non troppo grande, di quelli gialli con il pluriball all’interno. Lo sfogliò, i caratteri erano in garamond, lo stesso che aveva sempre usato lui. Quando cominciò a leggere ebbe la sensazione di svenire.

Uscì dallo sgabuzzino dopo un’ora, barcollando senza nemmeno più la voglia di piangere. Si affacciò alla finestra. Vide Ponte Vecchio già illuminato dalle luci, poi Ponte Santa Trinita e l’Arno che accarezzava tutto senza fare rumore… E poi laggiù, in fondo, contro la macchia scura e frondosa del parco delle Cascine, Ponte alla Vittoria. Un capitolo ancora da chiudere. Forse l’ultimo davvero.

Christian e Marika. Ventidue e diciotto anni su una Golf scassata. Erano quasi le nove quando si trovarono a passare in Piazza Veneto.

Marika, giocherellò col pircing al sopracciglio canticchiando The Unforgiven dei Metallica, lo sguardo perso oltre il finestrino, verso ponte alla Vittoria. Poi strizzò gli occhi e appiccicò la faccia al vetro. «Guarda là, Cri.»

Christian, tamburellando sullo sterzo al ritmo della batteria, non le prestò molta attenzione. «Che c’è?»

«C’è uno che si vuol buttare giù dal ponte.»

Christian sorrise, senza girarsi. «See, come no. E io sono Vasco Rossi.»

Marika, la voce stridula. «Ma è vero. Guarda. Lo vedi? Guarda! E’ salito sulla balaustra!»

Il ragazzo le posò una mano sul ginocchio e ripensò allo scherzo che gli aveva fatto il suo amico Filippo al telefono proprio quella mattina. Mi vogliono ammazzare, capisci? Mi ammazzanooooo!!!

«Guarda!»

Marika insisté talmente tanto che il ragazzo fu costretto a voltarsi. Quando lo fece, non vide nessuno.

«Senti, Mari,» disse Christian, «non ho più voglia di scherzi. Se vuoi che ti dia retta, almeno aspetta domani.»