In questa sua opera seconda, dopo Private, Saverio Costanzo indirizza di nuovo il proprio sguardo verso un microcosmo chiuso, concentrazionario, quale quello di una scuola gesuitica, assolutamente impermeabile al mondo esterno e caratterizzata da una disciplina rigidissima, quasi militare, fondata sulla delazione, dal momento che il "denunciare le mancanze di un fratello" viene considerato un vero e proprio "atto di carità", perché aiuta a far emergere la parte oscura di sé (tanto che per certi versi, il padre superiore e i monaci anziani finiscono con l’assumere connotati molto simili a quelli dei soldati israeliani, che nel lavoro d’esordio del regista romano, tenevano prigioniera l’intera famiglia palestinese). E lo fa, Costanzo, prendendo spunto da un romanzo di Furio Monicelli, fratello del regista Mario, Il gesuita perfetto, uscito nel 1960, suscitando il plauso pressoché generale della critica e al tempo stesso, un certo clamore per l’intreccio in esso narrato di vocazione religiosa e pulsioni omo(erotiche). E uno dei tanti meriti di In memoria di me sta proprio nell’aver fatto tornare nelle librerie, nei tipi degli Oscar Mondadori, con il titolo Lacrime impure, questo libro bello e importante, assolutamente da riscoprire. Romanzo da cui Costanzo si è comunque, abbastanza allontanato, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto, centrale nel romanzo di Monicelli, dell’omosessualità. Infatti, il bacio sulle labbra che il novizio eretico dà al padre superiore – scena che ha riempito le cronachette della Berlinale, dove il film è passato in concorso – non ha nulla di erotico e morboso, trattandosi di un gesto simbolico che sancisce un rapporto dialettico tra due modi diversi di intendere il Vangelo. Così come è appena accennata, nella prima parte del film, l’attrazione omoerotica alla base del tormento di un altro catecumeno.
Infatti, l’interesse principale di Costanzo è tutto rivolto alla profonda macerazione interiore dei due protagonisti, Andrea (Christo Jivkov, già visto in Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi) e Zanna (Filippo Timi, sugli schermi anche con Saturno contro), evidenziata anche da una strategia registica volta a privilegiare, seguendo la lezione di Dreyer, Bresson e Tarkovski, i silenzi, i chiaroscuri (suggestiva la fotografia di Mario Amura) e, soprattutto, i tempi lenti, con un continuo e controllato movimento della macchina da presa, che segue i personaggi nei loro percorsi all’interno dei labirintici spazi geometrici del convento. E proprio negli inquietanti, kubrickiani, corridoi del convento, continuamente tirati a lucido, sembrano perdersi i dubbi dei protagonisti, personificati in quell’essere "post umano" – un bachelor mutante in cui maschile e femminile si scambiano continuamente di posto fino a risultare perfettamente intercambiabili – molto simile a una scultura di Giacometti, che una notte appare ad Andrea.
Film di grande suggestione e complessità, vera e propria messa di requiem per l’Io, dal momento che l’esperienza ascetica impone soltanto un ricordo della propria identità e del proprio ruolo sociale, In memoria di me sembra suggerirci due opzioni per vivere la propria fede, quella – più comoda e ipocrita – per il silenzio, la rigida disciplina conventuale, propria di Andrea, e quella per le immagini, quindi il reale, il mondo, propria di Zanna, che, come il Terence Stamp del pasoliniano Teorema, vuole essere portatore di amore in senso non solo spirituale. A lui vanno senza dubbio, le simpatie dell’autore. E anche le nostre.
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