Una madre divorziata, due figli gemelli (fratelli nella realtà extra-cinematografica), un padre assente che monetizza l’affetto che non sa/non vuole dare, uno spasimante della madre che tenta di sostituirsi alla funzione paterna sulla destinazione della casa dove la madre vive con i figli ma che fa subito retromarcia di fronte al più riottoso dei due. Tutto incorniciato in interni ripresi da una cinepresa immobile ad altezza sguardo e quasi sempre in piano sequenza. Il tutto al servizio del ritratto impietoso di una “crescita mancata” alla grande, quella dei due gemelli (chi altri se no?), o troppo legati alla madre, il primo, o troppo presi a distanziarsene col più facile dei mezzi a disposizione, quello del distacco brusco marchiato a fuoco dalla violenza verbale e fisica, il secondo. Il “ritratto impietoso” va diviso in parti eguali tra un pessimismo di fondo, e un richiamo a ciò che la dedica che apre il film sottolinea, ossia i nostri limiti, che evidentemente esistono e non smettono di farsi sentire. Proprietà privata, del belga Joachim La Fosse, lavora mirabilmente sul triangolo madre (Isabelle Huppert) e gemelli (Jérémie Renier, Yannick Renier), capaci di condividere un’intimità a tratti quasi imbarazzante ma capaci anche di spellarsi vivi (a parole e a botte), calandoli in una magione-prigione da dove non tutti usciranno vivi. Il finale, con la cinepresa che dopo aver raccontato tutto quello che c’era da raccontare, si allontana in soggettiva dalla casa mentre qualcuno rimette silenziosamente insieme i cocci sparpagliati di quel poco che è rimasto dopo la tragedia, è uno di quei finali affascinanti, indispensabili, necessari, in una parola sola, giusti.
Menzione speciale della Giuria (ex-aequo con "Daratt" di Mahamat-Saleh Haroun) alla 63ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.
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