Debutto iper-interessante per Denis Dercourt con questo La Voltapagine, colei che sapendo leggere la musica magari perché ex pianista caduta all’audizione decisiva sull’ultima nota, volta le pagine dello spartito alla pianista che invece ce l’ha fatta e che troppo presa dall’esecuzione non può mollare un istante che è uno.

Come in Tutti i battiti del mio cuore, la fusione tra pentagramma/storia ed esecuzione/regia, avviene in misura impeccabile attraverso un atmosfera lenta, soffusa, quasi sottovoce, eppure implacabile quando si tratta di passare alla macchina a mano o quando è la volta di vivisezionare il volto dell’impassibile Mélanie Prouvost (Déborah François) che si ritrova a fare da voltapagine ad Ariane Fouchécourt (Catherine Frot), che qualche anno prima aveva mandato in frantumi i suoi sogni di giovane pianista. Uno dei fulcri sul quale il film ruota, e che la profondità di campo sottolinea spesso, è la sostanziale differenza tra chi sta davanti, in primo piano, a suonare e a prendersi gli applausi (anche se non sempre…), e chi sta dietro, sullo sfondo, vivendo e patendo, di luce riflessa. Non meno importante il secondo fulcro, la vendetta, ancora una volta un piatto servito freddo, anzi freddissimo, vendetta che pur apparendo da subito come l’unico sbocco della vicenda, sa prendersi tutto il tempo necessario per dipanare da un gomitolo di rabbia repressa un disegno accerchiante attorno alla vittima designata senza lasciare intuire il mezzo del quale si servirà per regolare i conti in sospeso (la musica? Gli affetti famigliari? La parola? Una lettera? Tutti? Nessuno di questo?). La voltapagine è La Pianista a parti rovesciate, è l’allieva (mancata…) che si ribella alla maestra, è due donne, una giovane una meno, una troppo forte, l’altra troppo debole, una diabolica, l’altra no, una che sa aspettare, l’altra che ha scordato da un pezzo a che cosa alcuni possono attingere se vedono andare in pezzi i loro sogni. Ma La voltapagine è anche recitazione implosa eppure ribollente, impassibile ma trasparente nei sottostanti stati d’animo, la cosa più lontana dall’esercizio di stile e la cosa più vicina ai segreti che nessuno confessa volentieri, una reincarnazione a soggetto vivente di Chabrol. Il carrello laterale che segue Mélanie in cammino su una strada deserta diretta chissà verso dove scoprendo alle sue spalle un terreno incolto è una posizione morale fatta immagine. Ovvio che un film così merita di esser visto.