Il titolo ricorda una filastrocca popolare, ma non si tratta di un libro per bambini. L'autore è, come di norma, un esordiente, ma sembra proprio che abbia tante cose da raccontare. Come belle statuine, romanzo d'esordio di Cristiano Panzetti (libri/4395/), in realtà, ci porta un po' lontano dai generi a noi consueti. Infatti esso non è un romanzo giallo, né un thriller. Racchiude sicuramente alcune tinte noir nell'indagine profonda dell'animo umano, ma è a tutti gli effetti per noi una specie di evasione, forse alla ricerca di qualcosa di diverso. O forse, semplicemente, alla ricerca di un'emozione.

Che ne dici, Cristiano, ci proviamo insieme?

Volentieri, sperando che le risposte siano all'altezza delle domande.

Come sai il tuo romanzo mi ha colpito. Mi ha emozionato. Sei riuscito a "strapparmi" addirittura quattro stelline, evento raro, a detta di molti. Come tu stesso mi hai fatto notare, però, non si tratta di un romanzo strettamente di genere… Tu come lo definiresti?

Difficile dirlo. Una commedia agrodolce? Una tragicommedia? Meglio una storia di paese, forse, senza per questo voler banalizzare. Il paese è una realtà complessa, fatta di rapporti stretti, certamente, ma anche insani, viziati, torbidi. La conoscenza più o meno diretta tra gli abitanti non necessariamente semplifica le relazioni, o rende i rancori meno violenti, i contrasti più attenuati. Il paese alleva personaggi scorbutici, politicamente scorretti, pragmatici e per niente banali, anche pieni di risorse. Di conseguenza, la storia che racconta un paese, o una delle tante storie che lo raccontano, non ha nulla di semplice. Anche perché spesso lascia ferite profonde e crudeli.

In effetti, Come belle statuine, mi è piaciuto anche per la sua semplice complessità, se mi permetti l'ossimoro… Cerco di spiegarmi meglio: da una parte contiene e fa emergere una realtà complicata e intricata, ma dall'altra mi sento di dire che è un romanzo che riesce a fare della quotidianità la sua forza. E' così?

Esattamente! Basta guardarci intorno, prestare un po' di attenzione a ciò che ci circonda e ascolto alle persone con cui chiacchieriamo, magari per caso, magari senza averne voglia, per accorgerci di quanto il quotidiano sia ricco di spunti e suggestioni, di come la realtà superi troppo spesso la fantasia più fervida.

Quindi è dalla realtà e dalla vita di tutti i giorni che trai spunto per le tue storie?

Dodici anni a contatto con la gente, come assessore comunale in ambiti così ricchi di relazioni umane come la cultura, la scuola e lo sport, mi hanno aiutato a capire il valore delle storie personali, la loro importanza nella formazione di un carattere, nella gestione dei rapporti, nel modo d'incurvare le spalle quando si cammina, e, perché no?, nella costruzione della storia di un paese, piccolo o grande che sia, nell'equilibrio di una collettività. Mi tormenta l'idea che vi siano migliaia di storie meravigliose che non avranno mai ospitalità. E allora, per quanto posso, cerco di dare voce a queste suggestioni, anche manipolandole, anche lasciandole anonime e non necessariamente associandole a un volto.

Ma quanto di autobiografico e di provato sulla tua pelle c'è nell'opera?

Moltissimo, con una precisazione doverosa, però: io non sono un personaggio del romanzo, come qualcuno si ostina a credere. Eppure l'ossatura della storia è senza dubbio impregnata della mia essenza, della mia visione del mondo, per così dire, che si trova sparpagliata, messa qua e là, più o meno criptata. Molti personaggi tengono comportamenti che potrebbero essere i miei, pensano e dicono cose che condivido, ma anche no. Alcune situazioni le ho vissute in prima persona, certo, magari in un contesto anche molto diverso, però, al punto da doverle riadattare, a volte perfino stravolgere per renderle funzionali alla narrazione. Lo stesso teatro della vicenda è senza dubbio quello della Bassa Modenese, la mia terra d'origine. Alcuni riferimenti sono piuttosto chiari: la topografia, il fiume, la nebbia, l'immutabilità della pianura… Tuttavia c'è un'impalpabilità di fondo, un'approssimazione geografica, tutto sommato voluta, che da un lato rende il paese riconoscibile, dall'altro perfettamente anonimo.

A questo punto mi viene in mente un'altra riflessione che ha fatto capolino nella mia testa leggendo il romanzo. Come belle statuine è un romanzo corale, non ha un protagonista che emerga sugli altri. I protagonisti sono tanti "uomini piccoli" così mi piace definirli, che potrebbero rappresentare ciascuno di noi. Attenzione, però, non si tratta di "piccoli uomini". Non so se sono riuscita a spiegarmi….

Credo di aver capito cosa intendi e ti do ragione se ne fai una questione di "genere". Mi spiego. Come belle statuine è un romanzo dal quale gli uomini escono sconfitti, proprio perché sono "piccoli", meschini, codardi, incapaci di prendere decisioni vere e d'imprimere una svolta alle proprie inerzie. Le donne però non sono così. Le donne del romanzo, con l'eccezione di Carmelina e della maga Afrodita, sono "grandi donne". Forti, coraggiose, indipendenti, capaci di esprimere anche dei rifiuti, quando serve, di chiudere delle porte. A chiave e per sempre.

In realtà non ne faccio una questione di genere, il discorso non è riferito agli uomini piuttosto che alle donne, anche se è vero che le donne ne escono sicuramente meglio. Intendo dire che i protagonisti non sono eroi, non ci sono il poliziotto tutto d'un pezzo o il detective dall'intuito sopraffino che risolve i casi con il suo acume. I protagonisti sono uomini e persone comuni, "piccoli" se vuoi, nella loro quotidianità, ma "grandi" perché veri e reali. Che essi siano uomini o donne poco importa.

In questi termini non posso che concordare. Credo che sia proprio questo a dare credibilità e spessore ai personaggi del romanzo, a favorire l'immedesimazione del lettore e la sua partecipazione emotiva alle loro vicende.

Secondo me i tuoi personaggi in se stessi, ma anche nei rapporti con gli altri, sono in un certo senso simbolo di qualcosa. Mi sbaglio?

Diciamo che a loro modo, caso per caso, sono personaggi ben rappresentativi di una categoria, piuttosto che di un periodo storico, di una convenzione sociale, di una distorsione dei tempi. Più nel male che nel bene, visto che a me interessa soprattutto sviscerare le contraddizioni, i limiti, i tormenti, le ipocrisie. È chiaro che, con questa impostazione, alcuni personaggi finiscono per farsi carico delle colpe e dei difetti di intere categorie, per così dire. Per esempio, Padre Ignazio sarà il prototipo del cattivo prete, come Afrodita della cialtroneria di certi maghi da strapazzo, Libero del partigiano col torbido segreto nel cassetto e così via. Senza con ciò apparire monolitici, eccessivamente stereotipati, dal momento che ognuno di loro conserva le proprie, caratterizzanti, esclusive sfumature.

Proviamo a far conoscere, almeno in parte, a chi ancora non li avesse incontrati, alcuni di loro. Esprimi la tua preferenza e se riesci spiega brevemente il perché. Adalgisa o Libero?

Crudele scegliere tra la moglie e il marito, due personaggi che amo molto e che, forse, si amano da mezzo secolo più di quanto non credano, nonostante litighino quasi ogni giorno. La perpetua e il bestemmiatore, la devota e l'ateo impunito. Legati da una disgrazia antica e ognuno col proprio tormento che torna a galla. Schiavi del senso di colpa. Tirato per i capelli, scelgo l'Adalgisa, perché resto convinto che le donne abbiano comunque una marcia in più e il romanzo lo dimostra. Un consiglio: leggete con attenzione le ultime tre righe, vagamente subliminali, perché lì c'è il futuro di Libero.

Lucia o Carmelina?

Due donne del sud, agli antipodi tuttavia. Il coraggio e l'intraprendenza da un lato, l'insicurezza e la passività dall'altro. Lucia rifiuta in gioventù le imposizioni familiari, dà un taglio netto, anche usandosi violenza. Carmelina no. Carmelina non ha la forza per ribellarsi al marito, per salvare se stessa, per salvare la figlia dal suo destino: insomma non è una madre capace. Lucia ha rinunciato a essere madre e può agire senza condizionamenti, suggerendo anche scelte estreme. In questo è senza dubbio avvantaggiata. Lucia è per Carmelina l'esempio di come una donna dovrebbe saper condurre la propria vita. Il problema è che resta tale, che manca la traduzione pratica dei suoi insegnamenti. Il problema è che Lucia parla al vento. Carmelina si abbandona alla lettura dei suoi tarocchi, ai maghi posticci della televisione, per sentirsi dare consigli che comunque non seguirà. Quindi scelgo senz'altro la forza d’animo e la risolutezza di Lucia.

Don Tano o Padre Ignazio?

Don Tano è un mafioso decaduto, ostaggio della nostalgia e di un ruolo che si ostina testardamente a recitare. In un ambito ristretto, certo, tra le mura domestiche, ma non per questo con meno crudeltà. Coerente col disegno preciso che ha in mente e che non ammette intralci: il matrimonio della figlia Agata col rampollo di un facoltoso imprenditore edile. Tutto il resto è ininfluente: il bene della figlia, la serenità familiare, la difesa dei sentimenti… Pur non essendo così odioso, Padre Ignazio non è molto migliore di Don Tano. Un prete sempre pronto al compromesso, anche con se stesso, che si aggrappa ai bizantinismi, che convive con dio nella testa e il diavolo nei pantaloni, non può essere un buon prete. Eppure gli va bene così. La coerenza e il coraggio, Padre Ignazio li lascia a altri. Vivacchia finché riesce, finché gli eventi non precipitano, travolgendolo. A volte fa sorridere, per tutto ciò che gli capita, ma non merita certo stima o comprensione. Se dovessi ascoltare la ragione, non sceglierei nessuno dei due, essendo entrambi personaggi totalmente negativi, anche se per ragioni diverse. Tuttavia l'istinto compassionevole mi dice di "salvare" Padre Ignazio, se non altro perché è intorno alla sua figura che si è via via costruita l'architettura del romanzo. Può sembrare curioso, ma è proprio lui il primo personaggio che ha visto la luce.

Saxo, Fenico o Sebastiano?

Ossia i "Nani liberi", tre personaggi che adoro. Disadattati, folli, incapaci d'intrattenere relazioni interpersonali, di un'immaturità imbarazzante, eppure così complessi. Se proprio devo scegliere punto in alto: Saxo, il più complicato di tutti. Ideatore di questo mondo parallelo, grande sacerdote di una setta neopagana, amante ambiguo di una statua di Biancaneve, dispensa ordini e sermoni, arroccato dietro un cinismo misogino che alla fine del romanzo evidenzia tutta la sua artificiosità, sfarinandosi miseramente e restituendogli un'umanità che proprio pareva non appartenergli. E poi parla in gaelico e concepisce vendette al limite del delirio… fantastico!

Come si intuisce i rapporti e le storie si intrecciano tra le pagine e tu le sviluppi con abilità sotto gli occhi del lettore. Un romanzo con una struttura così complessa ti avrà richiesto molto tempo e dedizione. Da quanto ci lavoravi?

La prima stesura, molto grezza per la verità, si concentra nel periodo dicembre 2001- aprile 2002. A questa ha fatto seguito, a singhiozzo, una lunga fase di revisione, ultimata nel marzo 2004 per saturazione. Ormai sentivo il bisogno di passare a altre storie, a altri personaggi. Se non ci si pone un limite, infatti, il romanzo rischia davvero di diventare una prigione, d'imbrigliare la libertà d'azione dell'autore che, a ogni lettura, scorge inevitabilmente nuove sfumature, stimoli, possibilità di miglioramento. A un certo punto, quindi, ho scelto di tagliare il cordone ombelicale, di guardare oltre, accettando di rimettervi mano solo in vista di una pubblicazione.

E da quando hai deciso di mettere la parola fine, come e in che tempi sei arrivato alla pubblicazione?

Alla fine del 2001 ho seguito un bellissimo laboratorio di scrittura a Bologna, condotto dall'eccellente Luigi Bernardi, scrittore, criminologo e persona squisita, col quale avevo mantenuto alcuni contatti. Ultimata la revisione, gli ho passato in lettura il manoscritto. Immagino che lo abbia fatto sorridere ritrovare personaggi e situazioni che avevano preso corpo proprio nel suo laboratorio… Solo diversi mesi dopo, poi, ho saputo del suo rapporto di consulenza con la Dario Flaccovio Editore, di quanto il romanzo gli fosse piaciuto e di come la casa editrice sembrasse seriamente interessata a pubblicarlo. Finché eccolo, d'incanto, in libreria...

Che effetto fa?

Con tutto il rispetto e le debite proporzioni, è un po' come tenere tra le braccia un figlioletto. "Il mio bambino", lo chiamo io. Devo dire, però, che l'emozione più grande, rimasta finora irripetibile, l'ho provata sapendo del concreto interessamento della casa editrice al mio romanzo, quindi agli albori, si potrebbe dire, allo stato embrionale. Roba da gambe che tremano...

E sei soddisfatto del risultato?

Certo, anche se per natura sono molto severo e esigente, soprattutto con me stesso. Tuttavia ritengo che si possa sempre fare di meglio, che la strada del perfezionamento non ha mai un punto di arrivo, forse. Io posso rileggere e migliorare ciò che scrivo anche cento volte, ma so che ci sarà sempre, da qualche parte, un aggettivo migliore, una frase di troppo, una similitudine più azzeccata. E credo sia anche normale, quando uno scrittore è alle prime armi e ancora non ha affinato il proprio stile, quando le suggestioni di ciò che si legge sono ancora troppo forti, così come i modelli ai quali uno ambirebbe avvicinarsi. A un certo punto, però, bisogna darsi un termine e rompere il rapporto a due scrittore/bozza, se si vuole sfuggire alla logica dell'imprigionamento, o, più pragmaticamente, se si vuole provare a dare una visibilità pubblica a quanto scritto.

Vista la tua esperienza, consiglieresti a chi ha un romanzo nel cassetto di trovare il coraggio di tirarlo fuori?

Assolutamente sì! Basta farlo con lo spirito giusto: da un lato senza immodestia, dall'altro senza cedere alla tentazione di vivere il rifiuto come un fallimento. Il solo fatto di riuscire a concepire un romanzo, a prescindere dalla pubblicazione, è un ottimo risultato, che deve inorgoglire. Chi aspira a captare l'attenzione altrui raccontando storie, trasmettendo emozioni, deve per forza di cose accettare di mettersi in gioco senza la paura di essere cestinato, criticato, perfino disprezzato. Fa parte di questo ambiente, credo. Semplicemente perché non si può piacere a tutti, o perché ciò che si è scritto presenta qualche imperfezione, o ancora perché si ha la sfortuna di capitare nelle mani o nel momento sbagliato. Sono convinto che tra molti bei romanzi pubblicati ve ne siano altrettanti che non trovano il giusto riconoscimento. Tuttavia bisogna insistere, a maggior ragione se si nutre la sensazione di aver fatto un buon lavoro. Io stesso, come molti altri immagino, ho inviato il romanzo a diverse case editrici che non si sono mostrate interessate. Alla fine, però, l'occasione è arrivata...

Vero. E come abbiamo detto la tua occasione è capitata grazie a Flaccovio, che è anche artefice, nella persona di Raffaella Catalano, del nostro incontro. E' grazie a lei che il tuo romanzo mi è arrivato tra le mani. Le ho chiesto perché la casa editrice ha deciso di scommettere sulla tua opera e un buon motivo per leggere il tuo romanzo. Ecco cosa mi ha risposto.

Alla casa editrice il romanzo di Cristiano è stato segnalato da Luigi Bernardi. Così è finito sulla mia scrivania. Quando l'ho letto, l'ho trovato un ottimo testo. Ho apprezzato subito il suo umorismo nero e il suo stile molto personale, oltre ai personaggi, tutti interessanti. Come sai, Dario Flaccovio è un editore che non scappa via davanti a un esordiente, anzi è sempre pronto a sostenere i giovani autori, se li ritiene validi. Quindi, appena ho segnalato la qualità di questo romanzo all'editore, senza esitazione ho avuto il suo appoggio e ho contattato Cristiano per proporgli la pubblicazione. Da lì, io, Giacomo Cacciatore (l'altro editor di Dario Flaccovio) e l'autore abbiamo cominciato a lavorare al testo. Poche limature e il romanzo era pronto. Quanto ai buoni motivi per leggere Come belle statuine, oltre a quelli che ho appena detto, ce n'è uno fondamentale: è un buon romanzo.

E secondo te, Cristiano, perché leggere Come belle statuine?

Perché è un romanzo molto attuale, direi. Cinico, irriverente, poco consolatorio, come la società in cui viviamo, e popolato da personaggi complessi, anche contraddittori, tormentati e "di confine". Un romanzo fondato sull'egoismo, sui conflitti e le contrapposizioni, anche preconcette e ideologiche, antiche e moderne, quelle che, in un paese, rimangono radicate per decenni, forse per secoli: atei contro cattolici, partigiani e fascisti, poveri e ricchi, giovani e anziani. Conflitti sociali, relazionali e familiari, che spesso negoziano le loro tregue sulla pelle dei più remissivi, quando non finiscono col morto.

E qui viene fuori la tinta noir del romanzo… Dimmi tre aggettivi con cui lo definiresti.

Irriverente, direi, o politicamente scorretto, se preferisci. Cinico. Per certi versi "epico". Un'epica di paese, certo, di basso profilo, dalle ambizioni piccole, talvolta meschine, ma non per questo meno cruenta, anche se non è sangue vero quello che scorre. Eppure c'è un'aria di guerra, si consumano drammi familiari e vendette crudeli, c'è un senso di appartenenza da un lato, di contrapposizione dall'altro, al divino, a ciò che rappresenta, alla sua distanza nei momenti più delicati.

A questo punto da lettrice che ha amato questa storia mi chiedo: quanto dovrò aspettare per leggere una nuova avventura? Stai lavorando a qualche progetto?

Sto lavorando a un nuovo romanzo, diverso da questo come ambientazione, tenore della storia, personaggi, ma non per questo meno corale e "ingarbugliato", per riprendere un termine da te usato. E quando capita scrivo racconti per qualche concorso letterario.

Quindi non bisogna aspettarsi un sequel?

Esattamente. Come belle statuine è un cerchio chiuso, una storia che non lascia situazioni aperte, inevase. Alla fine, ogni personaggio fa i conti con le proprie azioni, riceve quello che si merita, in base a una sorta di giustizia divina che lo scrittore applica senza margini di appello. Almeno in questa fase, non sono neanche interessato a concepire intrecci che prevedano una certa sequenzialità. Tuttavia non escludo che le caratteristiche di alcuni personaggi ritornino anche in futuro, in forme e con modalità diverse magari, per il semplice fatto che appartengono a tipi umani non voglio dire archetipici, ma quasi.

Un po', devo ammetterlo, mi spiace, ma, d'altra parte, apprezzo questa scelta che va un po' controcorrente rispetto alle attuali tendenze e sono molto curiosa di leggere il prossimo lavoro, sperando di non dover aspettare troppo. Nell'attesa, per il momento, non mi resta che salutarti e ringraziarti per la disponibilità.