Dietro le quinte, la verità. Sul palcoscenico del mondo la rappresentazione della vita, come ognuno di noi la vuole recitare. "io sono colei che mi si crede..." dice un personaggio pirandelliano. Invece, eccomi a parlare di me, sinceramente, in questo strano striptease psicologico.
Da dove comincio? Dall'inizio ovviamente.
Sono nata sotto la Madonnina, e sotto il segno della Vergine, e sono sempre vissuta a Milano, città che non lascerei per nessun altro posto al mondo. Ora questo amore mi fa soffrire. Milano è diversa. Prima da bere e ora bevuta. Forse impazzita. Stuprata. Deturpata. Ma per me Milano è bella, nonostante... nonostante cosa? Piazza Cadorna, per esempio. Sì, Milano è anche bella, di una bellezza segreta e nascosta. Discreta. E' come una nobildonna che ha il pudore di mostrare i propri gioielli, la bellezza dei cortili, dei giardini nascosti, delle sue chiese, tante, smarrite in mezzo ad altri edifici. Certo, bisogna conoscerla nelle sue pieghe segrete, per capirla e quindi amarla.
Per la città mi muovo, non in macchina, certo, la macchina la uso solo per andare fuori nei fine settimana, ma coi mezzi preferibilmente di superficie. Cammino molto per strade tranquille, ancora vivibili, avendo la fortuna di abitare in zona Garibaldi Brera.
Un altro luogo per me importante, altro luogo del cuore è la Valtellina, la parte bassa, il cosiddetto terziere inferiore. Non amo l'alta montagna. Mi piacciono i boschi che circondano Morbegno, Talamona. Mio padre era di Talamona e quindi lì ho lasciato pezzi della mia infanzia, nella casa della nonna, delle prozie, la grande casa, dal grande camino. Dalle finestre a inferriate, i vasi di gerani rossi. Ci torno spesso, anche se ormai incontro solo fantasmi. E' un paesaggio che ancora mi intenerisce e mi commuove benché quasi irriconoscibile. E allora, per ritrovarlo intatto, il mio sguardo deve andare oltre cime e oltre le cime verso il cielo. Quel cielo azzurro, terso, luminoso, trasparente, ancora uguale.
Ma nonostante questo amore per la Valtellina, per le vacanze preferisco il mare. Perché? Risponde per me una bellissima pagina nei Buddenbrook in cui Thomas Mann tratteggia un ritratto psicologico delle persone che amano il mare. "Occhi scuri, audaci, giocondi pieni di iniziativa errano di vetta in vetta. Ma sulla vastità del mare che con mistico e snervante fatalismo rovescia sulla spiaggia le sue onde, si posa uno sguardo sognante, velato, disincantato che è già penetrato profondamente in qualche intrico doloroso..."
Ho accennato prima alla nonna paterna. Ho conosciuto due nonne e un nonno, il nonno materno. Il nonno paterno no, è morto quando mio padre aveva solo dieci anni. Quello materno invece è scomparso quando io frequentavo la terza media. Me lo ricordo, era un uomo alto, robusto, completamente calvo e aveva un piglio autoritario. Spesso, quando ero a casa sua, mi prendeva da parte e non mi raccontava fiabe, no, mi leggeva brani dell'Orlando Furioso e della Gerusalemme Liberata. E mi insegnava il dialetto milanese perché non andasse perduto. (In compenso mio padre mi recitava pagine di I promessi sposi. Drogata fin da piccola...). Le due nonne... be', ho avuto la fortuna di godere della loro tenerezza per tanto tempo. Sono state molto longeve e molto diverse. Quella materna era dolce, mite, riservata. Quella paterna, una guerriera. E' mancata a 100 anni e sei mesi. E ha festeggiato il centenario assieme a figli, nuore, nipoti e bisnipoti, amici e parenti, lucida, felice, spegnendo ben cento candeline e brindando champagne.
E ora qui vorrei ricordare anche qualcuno che ho amato molto. I miei genitori, ovviamente, mia madre, soprattutto, perché se ne è andata troppo presto e inaspettatamente nel giro di due secondi. Un fulmine accecante. Una rabbia feroce, dopo la paralisi dello shock. E poi un dolore mai sopito.
La morte così repentina non mi fa paura. Anzi, la vorrei. Il mio atteggiamento nei confronti della morte non è paura, no, ma quando ci penso vengo presa da una profonda tristezza, malinconia, nostalgia per ciò che dovrò lasciare. Non tanto le persone che amo perché la mia fede mi dice che le incontrerò un giorno, nell'altrove... ma soprattutto le cose, gli oggetti... capisco gli egizi che mettevano nella tomba gli oggetti appartenuti al defunto... e poi non so il mare, i boschi, i prati, i fiori, i fiumi, la natura, tutto.
La malattia, sì, mi fa più paura. La sofferenza fisica. Il rischio di perdere dignità. E ho paura anche per la salute dei miei familiari, mia sorella, i miei due nipoti e i loro quattro meravigliosi bambini che sono la mia follia. E confesso ora la mia totale, irreversibile paura di volare. Per fortuna mi è arrivata tardi e ho fatto in tempo a vedere un po' di mondo. Ma ora non riesco più a staccare i piedi da terra. Ma questa paura è fraintesa. Non è quella dell'incidente. No, so che rischio di più in macchina a Roncobilaccio- Barberino del Mugello. E' invece ciò che definisco la paura della paura. Quando salgo su un aereo, quando decolla e si mette in quota, dentro di me si scatena il panico. Ecco, sono qui chiusa in una scatola, in un processo irreversibile, in mano a non so chi... Questo è, forse. L'irreversibilità della situazione. Adoro invece i treni che mi consentono ancora di fare tanti bei viaggi attraverso l'Europa, che in fondo non baratterei mai con quindici giorni sotto una palma, ai Caraibi. Un sogno non ancora realizzato, un viaggio sull'Orient-Express. But too expensive...
Il treno ti accompagna, ti coccola, e mentre macina chilometri, ti fa scorrere sotto gli occhi il film dei paesi che attraversi. Sono arrivata in treno fino a Sanpietroburgo, via Budapest, Kiev e Mosca e nessun aereo avrebbe potuto darmi tante emozioni. E quale approccio all'Inghilterra potrebbe essere più esaltante che l'attraversamento della Manica? Quando su un battello che sgroppa sulle onde agitate del canale, le mascelle contratte per controllare la nausea, vedi uscire poco a poco dalla foschia la muraglia bianca delle scogliere di Dover?
E poi il treno mi dà il senso dell'andare. Del movimento. Ecco un'altra mia paura, anche se il termine in questo caso è un po' esagerato: la noia. La staticità. L'immobilismo. Persino in vacanza, dopo tre giorni che sono in un luogo, ho già voglia di scappare. Una volta una persona che stava con me mi ha detto "tu hai il vento nelle scarpe..." E' vero anche se non so mai bene dove vorrei scappare. Però il viaggio sempre, breve o lungo. Perché, come aveva scritto Camus, lo scrittore che ha un posto di privilegio sul mio comodino "il viaggiare spezza in noi una specie di apparato scenico interno. Non è più possibile barare... lontano da parenti, dalla lingua, strappati a tutti i nostri sostegni, privi delle nostre maschere, siamo completamente alla superficie di noi stessi..."
Altri passatempi preferiti? Libri e cinema, che ti consentono altri viaggi. E musica. Adoro la musica. Anche quella leggera. Anche se sono solo canzonette. Confesso, da ragazza ero lacerata da quelle che credevo essere due vocazioni. Volevo fare la giornalista o la cantante. E ho anche studiato per questo, nonostante il dissenso paterno. ("Prima la laurea, poi fai quel che vuoi...") Purtroppo, allora non esistevano Maria de Filippi e il Grande Fratello che scoprono e lanciano ogni anno nuovi si fa per dire talenti. Allora la strada da percorrere era diversa e molto più impervia. Però il canto mi è sempre rimasto dentro. Anni fa, un mio amico aveva aperto in centro a Milano un piano-bar, un club privato a uso esclusivo di amici e parenti. C'era un pianista eccezionale e lì io passavo tante serate e nottate, microfono in mano, a dilettare, o a far soffrire gli amici. E il mattino dopo, con le occhiaie alle ginocchia, alle nove ero già nell'acquario di Segrate, a occuparmi di gialli. Ora non c'è più. Ha chiuso, troppo pressato da pretese di pizzi. Ma canto ancora, in macchina. Infilo una cassetta e faccio duetti straordinari con Mina, la Vanoni, che sono state la colonna sonora della mia vita. A squarciagola e insieme alla voce escono ansie, preoccupazioni. Si scarica tutto.
Essere a Segrate significava aver assecondato l'altra mia vocazione, quella del giornalismo e della scrittura. Ma di questo parlerò più ampiamente alla fine.
Devo riprendere il discorso che riguarda la vita privata. Vivo sola, da anni, ma ciò non significa che non abbia un mio mondo di affetti, forti, imprescindibili. E' una solitudine piuttosto affollata. Ma è una scelta, è il prezzo che pago per la libertà. Sono divorziata e il mio ex marito si è da tempo risposato, felicemente questa volta, spero per lui. Vivere soli richiede una grande autodisciplina. E' un patto che ho fatto con me stessa "comportati quando sei sola come se fossi in mezzo agli altri." Quindi, mai lasciarsi andare e poiché ormai lavoro soprattutto in casa, mi alzo, doccia, non bagno, mi vesto, mi trucco come se dovessi uscire. E soprattutto niente vassoio con panino davanti alla televisione. Il mio rapporto con il cibo è di una assoluta normalità. Certo, mi cucino delle cose, molto semplici perché non sono particolarmente golosa (a meno che non si tratti di cioccolato), non amo i sapori forti, violenti, speziati. Sono tendenzialmente vegetariana, adoro i formaggi, e non rinuncerei mai al primo caffè del mattino. Il tè lo bevo solo se sto poco bene. Sono astemia, che noia, vero? E se mangio aglio mi viene uno shock anafilattico. Il cibo acquista valore per me solo quando sono in compagnia di amici, quando è un fatto conviviale, quando è l'agape. Infatti amo molto la socialità, frequento tanta gente e non disdegno certe mondanità.
Ho un forte senso estetico. Mi piace l'eleganza, quella sobria, discreta, assecondo la moda fino al punto in cui si adatta al mio gusto, al mio modo di essere. E anche i jeans, perché no, ma certo non quelli tutti sfilacciati. "La vera eleganza" diceva Coco Chanel "è quella che non si vede." Sono d'accordo. Rabbrividirebbe vedendo certe vetrine. Il trionfo del cattivo gusto. Il finto barbonismo. E credo che la penserei così anche se avessi sedici anni.
Non ho un cattivo rapporto col sonno. Stento però a prenderlo, questo sì, ma qualche volta con un poco di acqua...la pillola va giù e aiuta... Sogni molti, spesso dimenticati subito. Belli, mai angosciosi, ma indecifrabili e non ho un dottor Freud che me li possa spiegare. Incubi. Tanti, ma non di notte, di giorno, davanti ai telegiornali: guerre, delitti, stupri, rapine, pedofilia, la fame nel mondo, l'infanzia negata e le facce dei politici...
Non so se mi piacerebbe essere invisibile. Non ne vedo l'utilità. In fondo, molto spesso l'indifferenza della gente ci rende invisibili..
Rimpianti? E chi non ne ha? Ma non mi lacero su scelte sbagliate. Non piango su rose non colte... In fondo la nostra vita è tutta una sequenza di SE. Se avessi fatto quello invece di questo...
Sarei forse più felice? O meno? Chissà... viviamo nel gioco delle casualità. Perché è misterioso il motivo per cui prendi una strada invece di un' altra. Ma i bei ricordi poi ti compensano di tutto.
E last but not least, veniamo alla scrittura. Il tipo di scrittura che ho scelto, evidentemente per una tendenza innata, è prevalentemente di tipo saggistico-letterario. Certo, ho pubblicato anche dei libri, ma non di pura narrativa in senso assoluto. Il che non esclude una creatività. E nemmeno le angosce che ne possono derivare. Ho scritto tanto, ho riempito pagine di prefazioni, introduzioni, recensioni di libri, racconti, articoli di vario genere, interviste, pezzi di costume e quant'altro. Ho macinato e consumato pagine e sentimenti. Ho dovuto cedere a Sua Maestà il computer, col quale ho un rapporto conflittuale molto doloroso e ogni volta che spedisco un pezzo via e-mail, ho l'orribile sensazione che finisca in un buco nero. Entro in una spirale di ansia e comincio a telefonare per sapere se è arrivato. Quindi evviva la stilografica. Non riesco mai a governare molto bene le mie idee e allora mi aggrappo alla scaletta. Ma una volta superato l'impatto della pagina bianca, anzi dello schermo vuoto con la freccina che lampeggia nervosamente, se riesco a partire vado a ruota libera e la scaletta non conta più. Il lavoro più grosso è alla fine, quando rileggo e ristabilisco un ordine. Però non credo all'ispirazione improvvisa che arriva dal cielo come lo spirito santo. Alla folgorazione. Non credo al cantami o diva... Certo lo scrivere è un arte, ma soprattutto più che dello scrivere, è l'arte del farsi leggere. Ma non esiste un Olimpo sul quale vivono gli iniziati. Per favore, non prendiamoci troppo sul serio...
Lo scrivere è un atto di donazione, perché ogni volta dai una parte di te. E ogni volta aspetti il consenso degli altri. Ogni volta ti metti in discussione. Ogni volta è una sfida. Ma so comunque che non potrei fare altro, che non saprei fare altro e questo è il prezzo. Però la scrittura è anche qualcosa che richiede rigore, disciplina. Moravia diceva che uno scrittore dovrebbe ogni mattina mettersi davanti alla macchina per scrivere e pagina bianca o no rimanervi per sei, sette ore, come un impiegato in un qualsiasi ufficio. Il mio grande amico, Ed McBain, al quale mando un commosso, affettuosissimo ricordo, veniva in Italia almeno una volta all'anno e ci incontravamo nel suo albergo e mentre la moglie andava a saccheggiare i negozi del quadrilatero, facevamo lunghe conversazioni. E mi diceva sempre "non so perché alcuni scrittori debbano darsi tante arie. In fondo siamo dei professionisti, è una professione come un'altra, uno fa l'avvocato, l'altro il medico e ciascuna professione, se ben svolta, richiede talento..."
Anche la fantasia, la fantasia pura non esiste, è un'idea astratta. Perché è la grande sintesi di tutto ciò che abbiamo visto e vissuto e assimilato, di tutti gli stimoli ricevuti dall'esterno. Il talento, la genialità stanno nella capacità di impossessarsi di questa grande sintesi, coglierla, forgiarla ed esprimerla nelle opere. E certo non è facile. Non è da tutti.
Per me i venticinque anni passati in Mondadori sono stati una grande palestra. Ho lavorato con passione, divertendomi anche, con personaggi del calibro di Oreste del Buono, con colleghi-amici, senza rivalità, sembra strano, perché in Mondadori di coltelli invisibili ne volavano parecchi.
Esiste credo per tutti una ritualità, a volte anche un po' sciocca. Ho sempre la tendenza ad allontanare il momento dell'inizio, quello che a scuola, quando facevamo i temi chiamavano il comincino... La parte più difficile. Il colpo di dadi che dà il via alla partita tra te e le parole. E allora faccio qualche telefonata assolutamente inutile, oppure un solitario al computer, bevo un caffè... e altri balletti che invento di volta in volta.
Ma c'è la scadenza. E la scadenza è quella cosa che all'inizio ti illude di avere davanti l'eternità e che poi ti inchioda al computer due minuti prima che sia troppo tardi.
Be', credo di essere arrivata alla fine di questa logorroica chiacchierata. E mi chiedo a chi mai, o a quanti, potrebbe importare ciò che ho detto.
E ora, ripensando a tutto, dopo aver velocemente ripercorso alcune tappe del passato, quando arriverò alla fine della mia strada, so che NON potrei, fortunatamente, chiudere la mia vita con le parole del maggiordomo de Il giardino dei ciliegi, quando rimane solo nella grande casa e tutti se ne sono andati e si sente già il rumore dei colpi di accetta che tagliano le piante. Si sdraia sul divano, sa che per lui è finita e dice: "la vita se ne è andata e io non l'ho nemmeno vissuta".
Lia Volpatti. Italia. Giornalista, ha lavorato per 25 anni in Mondadori, prima alla Redazione degli Oscar, dove ha curato la collana Gli Oscar del Giallo, poi alle redazioni di Giallo e Segretissimo; è ora direttore responsabile di M Rivista del Mistero. Ha tradotto circa 80 romanzi polizieschi. Ha scritto Il Dizionario dei Detective (Con Oreste del Buono) e Sul braccio di colei (Baldini & Castoldi). Ha inoltre curato varie antologie, tra cui Mille e una luna (Mondadori).
Nel saggio Il segreto di Agatha (Alacran, 2006) si confronta con il mito di Agatha Christie in un'immaginaria intervista. Con Gian Franco Orsi ha scritto i saggi C'era una volta il giallo I - L'età d'oro del mystery e C'era una volta il giallo II - L'età del piombo (Alcran Edizioni). L'Accademia Europea per le Relazioni Economiche e Culturali le ha conferito il Premio Internazionale alla Carriera per il Giornalismo. (MS dal DizioNoir)
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