Mi è stato chiesto di scrivere un racconto prendendo ispirazione dalle testimonianze sul passaggio della guerra tra Cotignola e Barbiano. Ho ascoltato le voci registrate sui due nastri che le hanno raccolte e ho trovato difficile impadronirmi di ricordi così netti e precisi per elaborarli in un racconto di fantasia. C'è una frase che ricorre spesso tra le tante: "chi non c'è passato non può capire"... forse è vero. Io però ci provo e per farlo ho scelto la voce più sottile, più flebile ed evanescente, quasi un sussurro che emerge per pochi secondi e poi svanisce.
"Ero una ragazza allegra prima della guerra... dopo non lo sono stata più".
Italia Settembrini dice soltanto poche parole, tanto semplici e tanto comuni che credo di capirle anch'io, anche cinquant'anni dopo, anche se non ho vissuto il passaggio del fronte, anche se di lei non conosco nulla, a parte quel sussurro che ho sentito. Mi scuserà se la storia che ho inventato non è proprio come la sua...
Sono seduta davanti alla finestra, le braccia appoggiate al plaid che mi copre le gambe, il mento quasi sul davanzale, una macchia umida che si allarga sul vetro ogni volta che respiro. Guardo fuori, il giardino illuminato dalla luce gialla del lampione. E' notte e sembra che faccia ancora più freddo. Penso.
Penso a come sarebbe stata la mia vita senza la guerra. Senza quell'ultimo giorno di guerra. Non tanto per le cose che mi sono accadute dopo e neppure per quelle che mi accaddero allora. Avrei fatto la stessa vita che, come me, hanno fatto tutti gli italiani e l'avrei ricordata, come tutti, con un po' di eroica, forzata, struggente nostalgia. Gli anni della giovinezza sono sempre i più belli, devono esserlo. Nonostante tutto. Scoprire in vecchiaia che ci è stata portata via la parte più bella della vita, portata via per sempre, perché non tornerà mai più, sarebbe insopportabile. Allora quegli anni diventano belli, nonostante la fame, nonostante la paura, nonostante la morte, le bombe e i soldati. Ma non è vero. Quegli anni erano brutti, più brutti di quelli che hanno vissuto i miei figli e i miei nipoti e di quelli che vivranno i figli dei miei nipoti. Io ero giovane in quegli anni, ero una ragazza allegra, che sorrideva sempre. Era nel mio carattere e sarei rimasta sempre così, nonostante tutto. Avevo tutto il diritto di rimanere così. Ma a volte capita qualcosa che ti fa capire. E' un po' come camminare sul ghiaccio del Polo Nord -non ci sono mai stata, io, al Polo Nord, ma quando studiavo da maestra quella era un'immagine che mi aveva molto colpita - è un po' come camminare sui ghiacci del Polo e dimenticare che quello è solo ghiaccio, solido e sicuro come la terra ma solo ghiaccio. Poi, all'improvviso, vedi un buco nella neve che ti fa ricordare che sotto c'è il mare, scuro e profondo e freddo e chissà quali animali mostruosi ci stanno in agguato. Ecco, a volte, nella vita, succede di incontrare quel buco. Ero una ragazza allegra, prima della guerra. Dopo, non lo sono stata più.
Non so perché mio padre mi abbia messo nome Italia. Non certo perché fosse fascista, tutt'altro, ma bastò perché il federale di Cotignola mi dicesse "Italia, tu hai il destino nel nome" ogni volta che mi incontrava e anche "è proprio come te questa nostra nazione: bella e sorridente". Io, l'ho detto, ero una ragazza allegra, ottimista di natura. Studiavo da maestra, mi piaceva ballare, parlavo con tutti senza dare confidenza e sorridevo sempre, soprattutto quando sentivo suonare il violino, che mi metteva un'allegria, ma un'allegria, sempre.
Continuai a sorridere anche quando entrammo in guerra, perché sapevo che era una cosa brutta, bruttissima, ma ero certa, certissima, che sarebbe durata poco. Continuai a sorridere quando tornò il primo morto dalla Grecia, quando partirono i primi giovani per la Russia, quando arrivarono i primi tedeschi coi primi repubblichini e quando gli uomini del paese andavano con i partigiani, in Germania, a lavorare alle trincee o in campo di concentramento. Piangevo, avevo fame, avevo paura, avevo rabbia, come tutti, ma sorridevo. E se sentivo suonare un violino, alle feste da ballo, alle veglie in casa, perfino alla festa che fecero i tedeschi per il compleanno del comandante, sorridevo ancora di più.
Avevo questa idea che per quanto brutto potesse essere il presente, per quanto tremendo potesse essere il futuro, c'era un futuro ancora più in là che invece era bello. E rendeva diverso anche il presente. Quando arrivò la prima cannonata degli inglesi, per esempio, stavo attraversando la strada davanti a casa mia e un attimo dopo ero seduta per terra, coperta dei calcinacci del muro di fronte. Avevo avuto paura, sì, ma era stata una paura diversa da quando i fascisti avevano bussato alla porta per cercare il babbo da mandare in Germania, perché voleva dire che gli alleati erano vicini, sul fiume e sembrava quasi che le loro armi, che pure ci sparavano addosso, non avrebbero fatto male come quelle dei tedeschi. Insomma, c'era qualcosa nel futuro che cambiava anche il presente, qualcosa che faceva la differenza. Quella sera, dopo il primo bombardamento, per festeggiare il fatto che eravamo ancora tutti vivi, venne a casa nostra un ragazzo che suonava la fisarmonica e nel buio, per via dell'oscuramento, bastò che le sue dita sfiorassero il registro del violino che il tremito che mi agitava le labbra da quella mattina smettesse di colpo.
Poi arrivò l'inverno. Gli inglesi si fermarono sul fiume e sorridere si fece sempre più difficile. Ma si poteva ancora. Non per adesso ma per dopo, per quando sarebbe finita la guerra, la fame, il freddo, la rabbia e la paura. Ci fu l'ordine dei tedeschi di segare i campanili delle chiese, che potevano fare da bersaglio e sembrò che il paese non fosse più lo stesso, quasi peggio che per le bombe. C'erano topi grandi come conigli che facevano i buchi nelle porte delle case e mangiavano il naso e le piante dei piedi ai bambini. C'era la rogna che ci rosicchiava la pelle, c'erano i pidocchi e c'erano ragazzi di tredici anni con una gamba sola. Ma era così per tutti e prima o poi sarebbe passato, come erano passati i quindici bombardamenti che avevamo avuto e come sarebbe passato anche quello del 9 aprile, l'ultimo, che invece non passò.
A volte basta poco e per me, tra tutte quelle bombe che quel lunedì caddero su Cotignola, ne bastò soltanto una. Tra tutte le bombe lanciate dagli aerei, tra le decine di migliaia di granate sparate sul paese che per tutto il pomeriggio ci tennero sepolti nei rifugi come sulla bocca di un vulcano a me bastò una granata sola, che non uccise nessuno e che non sentii neppure, perché cadde lontano. Sul cimitero.
Fu la mattina dopo, quando uscii dal rifugio con mio padre e presi la strada per tornare a casa e mi trovai tra tutte quelle gambe e quelle braccia e quelle teste di morti sparsi sulla terra nera, tra gli spezzoni di legno delle casse e le schegge di marmo delle lapidi, che capii all'improvviso che non c'era fine all'orrore, che non c'era pace per nessuno e non c'era limite alla sofferenza per quanto tremenda potesse essere. Di morti ne avevo visti tanti, ma furono quelli, più morti degli altri perché cacciati, inseguiti e colpiti anche dentro alla tomba, che mi fecero vedere l'abisso profondo dell'orrore sul bordo del quale avevo camminato, sorridente, fino a quel momento. Quella voragine, quel cono nero al centro del cimitero di Cotignola era il mio buco tra i ghiacci del Polo.
Quella mattina stessa -e mi parve un tradimento- i neozelandesi entrarono in paese e la guerra finì. Ricordo che c'era un vecchio con un violino, in piedi sulle macerie di un muro crollato, che suonava per i soldati che si avvicinavano. Cosa suonasse non me lo ricordo più, ma mi sembrava così triste, ma così triste, che mi misi a piangere.
Ero una ragazza così allegra prima della guerra. Dopo, non lo sono stata più.
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