Pistoia, agosto 1926.

Il prete salì le scale del tribunale in fretta, appoggiato al passamano di ferro nero. Aveva dormito male per via del caldo e si era alzato presto. Si allargò quanto possibile il colletto che quasi lo soffocava e tirò su la tonaca che rischiava di farlo inciampare a ogni gradino. Al primo piano girò subito a destra e prese il corridoio. La porta numero 3, quella in fondo a sinistra. Era presto, ma il caldo rendeva l’aria irrespirabile e il corridoio sembrava avvolto dalla nebbia. Raggiunse la stanza. La porta era socchiusa. L’omino con gli occhialini a stanghetta lo guardò senza espressione.

“Sono qui per conto…”, disse il prete.

“Lei è Don Paolo?”

“Sì”.

“Lo sappiamo, il vescovo ne ha parlato con il Presidente Tozzi e poi ieri è venuto il monsignore…”

“Guasti?”

“Sì, lui”

“Sicché è possibile?”

L’omino sembrò un po’ incerto e sul punto di ribattere qualcosa, poi tirò un sospiro e si guardò intorno.

“Gliela prendo subito”, disse spostandosi di scatto, costeggiando con il fianco la scrivania nera e mangiucchiata, portandosi allo scaffale, da dove, alzandosi sulle punte, prese un incartamento contenuto in una cartellina grigia chiusa da un nastro blu scuro. Con la cartellina sotto il braccio l’omino raggiunse il prete, posò tutto sulla scrivania e strinse i pugni, come volesse concentrarsi e prendere forza per quanto si preparava a dire: “Un quarto d’ora padre, un quarto d’ora e poi devo rimettere a posto”.

“Va bene. Un quarto d’ora”.

“Mi raccomando”.

“Stia tranquillo”.

“Qui sono responsabile e non deve mancare nulla… Non lo dico per lei padre…”

“Stia tranquillo”, ripeté il prete.

L’omino non disse altro, accennò un gesto di vago saluto, infilò la porta e uscì. Il prete, rimasto da solo, sciolse il fiocco blu che chiudeva la cartellina, aprì il fascicolo e si sedette. Erano una quindicina di pagine scritte con una calligrafia fine ed elegante.

La stanza prendeva luce da un finestrino accanto allo scaffale. Non si leggeva bene. Il prete spostò la sedia portandosi il più vicino possibile a quella scarsa fonte di luce, si tirò dietro il fascicolo e, sistemandosi meglio gli occhiali tondi, cominciò a leggere.

 

“In nome di sua maestà Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e volontà della Nazione Re d’Italia.

Il Tribunale Civile e Penale di Pistoia, sedenti gli illustrissimi Signori Avvocati:

Delio Palli – Presidente,

Giuseppe Toni – Giudice,

Mario Botto – Giudice,

ha pronunciato la seguente sentenza nella causa penale contro:

Raddi Nicola di Fortunato d’anni 38, nato a Valletta San Biagio, residente a Campiresia, sacerdote e maestro elementare. Detenuto dal 25 maggio al 1 giugno 1896, imputato del delitto di corruzione di minorenni degli anni 16 nei sensi degli articoli 335 capoverso, 336 N.2, 79 codice penale. Per aver durante il corrente anno entro la filanda di proprietà di Balla Guido, corrotto mediante atti di libidine le lavoranti La Torre Bianca e Rimini Matilde, minori degli anni 15, da lui conosciute anche come parrocchiane e a lui affidate per l’educazione e istruzione. In esito all’odierno pubblico dibattimento tenutosi nei confronti dell’imputato, parti lese e P.M. Uditi imputati, parti lese, testi, lettura atti processuali, P.M., difesa e per ultimo nuovamente l’imputato.

Ritenuto essere emerso dall’odierno dibattimento che in Campiresia havvi una filanda di proprietà del Commendatore (sansepolcrista e squadrista) Balla Guido, dove l’imputato soleva sostare durante passeggiate da lui compiute nel paese in principal modo nel pomeriggio.

Ritenuto che il 18 marzo u.s. il Comm. Balla Guido scriveva al Pretore di Ponte Calnago correre voce che il sacerdote Don Raddi aveva intrapreso in confronto di qualche sua lavorante azioni turpi, voce che non appariva senza fondamento.

Che di qua mossero le indagini del Maresciallo dei Carabinieri Gatto e dell’autorità giudiziaria, le quali portarono pertanto all’arresto del giudicabile effettuato per ordine del Pretore nel  25 maggio mantenuto fino al 1 del mese di giugno.

Che le indagini giudiziarie, confermate poi a questa orale discussione dettero i seguenti risultati:

1. La Torre Bianca di Antonio di anni 15 ha dichiarato e con tutta fermezza sostenuto anche in seguito ai più espliciti e reiterati richiami alla verità e alle avvertenze delle gravi conseguenze del suo deposto, che il sacerdote Don Raddi per due o tre volte in sul finire dello scorso mese di febbraio, col pretesto di aiutarla nel suo lavoro di telaio, si metteva a lei vicino, seduto sulla stessa panca, e quando le altre lavoranti erano in altro occupate le copriva le gambe con la veste talare, le introduceva la mano sotto le gonne e dietro e la rendeva passiva di toccamenti, inoltre il Don Raddi introduceva l’altra mano sotto la sua veste sì da procurarsi godimento, godimento che richiamata a spiegare, fece intendere trattarsi dell’estasi venerea.

2. Che di seguito a questo avvenimento, in data 6 marzo, veniva rinvenuto privo di vita il corpo di La Torre Guglielma di Antonio, di anni 23, sorella della suddetta Bianca, la quale non resistendo alla vergogna e all’onta abbattutasi su di lei e sulla famiglia per le turpi estrinsecazioni del peccato di lussuria perpetrato dal Don Raddi sulla sorella, decideva di togliersi la vita gettandosi dalla roccia nel torrente Limenta.

3. Che il Don Raddi, con la scusa di voler rivedere il lavoro da lei portato a termine,  si appoggiò ad un fianco della lavorante Rimini Matilde di anni quattordici, osservando che le mancava un bottone dalla gonna e le diceva di dire alla madre di attaccarglielo, ma così dicendo le introdusse la mano e profittando della sorpresa su di lei la titillava alle pudende, ma per breve istante, onde non essere visto.

4. Che Lecci Adalgisa d’anni 18, e perciò sotto il vincolo del giuramento ha deposto: che lei, alla fine del 1925, non essendo parrocchiana del Don Raddi, ma andando da lui in privato per vendergli certe uova, un giorno imprecisato, e per una sola volta, lui la costrinse a mettergli una mano sotto la tonaca, a estrargli il membro e a dimenarlo. Lei se ne lagnò ed egli desistette dall’operazione.

Ritenuto che questi sono i fatti narrati nella loro ripugnante chiarezza dai soggetti passivi.

Ritenuto che ciò che racconta la Lecci di succedutole non può formare tema di giudizio e perciò non farsi luogo a procedere, però se prescritta l’azione penale, il fatto sta e non può a meno servire ad elemento di convinzione come si verrà discorrendo.

Ritenuto che i fatti quali vennero narrati dalle giovani La Torre Bianca e Rimini Matilde, costituiscono senza dubbio il reato previsto dai combinati articoli 335 parte seconda e 336 N. 2 del codice Penale, così vennero definiti dalla camera di Consiglio, qualificati lo stesso dalla Corte d’appello, così li ritenne la stessa difesa del giudicabile che non ne mosse questione, che anzi ammise la giustizia oggettiva della imputazione.

Ritenuto che nei confronti della La Torre Bianca vi è anche la violazione della stessa disposizione di legge commessa in tempi diversi, con atti esecutivi della medesima risoluzione, e quindi la continuazione contemplata dall’articolo 79.

Ritenuto che l’impegno dell’abile e vigorosa difesa volle dimostrare non raggiunta la prova soggettiva dei reati.

Ritenuto però che questo genere di reati è tale che la prova oggettiva si confonde con la soggettiva, per modo che quella stabilita non è a discutere di questa.

Ma il dibattimento che occupa il tribunale è di tanta gravità che è mestiere ribattere ogni argomento difensionale coi fatti risultanti per convincere della giustizia del giudizio che va a emettere.

Ritenuto che il giudicabile è pienamente negativo dei fatti che gli vennero rimproverando, però non ha potuto negare che qualche volta si metteva vicino alla La Torre Bianca e di aver potuto casualmente toccarla col gomito nelle parti pudende”.

 

Il prete si tolse dalla tasca della tonaca un lungo fazzoletto da naso con il quale si asciugò il sudore, poi si levò gli occhiali che gli si erano appannati e cominciò a pulirli con lo stesso fazzoletto.

La stanza era piccola, quasi un bugigattolo, c’era odore di carta che il caldo rendeva più acuto, o almeno a lui sembrò così. Si alzò. Dalla porticina dietro lo scaffale si accedeva a un minuscolo gabinetto col lavandino sbrecciato, sotto al quale era stato infilato un bidé di ferro smaltato.

L’omino di prima entrò in silenzio nella stanza e prese a cercare dei documenti nello scaffale subito alla sua sinistra. Il prete ebbe per un attimo la sensazione che fosse lì per controllarlo, cercò di scacciare dalla mente questo pensiero e gli sorrise in modo amichevole.

“Tutto a posto?”, l’omino l’aveva chiesto e non si capiva se l’avesse detto per cortesia verso il suo ospite, o per tranquillizzare se stesso.

“Credo che mi occorreranno cinque minuti in più”, disse il prete, “per degli appunti”, aggiunse.

L’omino strinse i pugni, come aveva fatto prima, e sollevò leggermente le spalle.

“Basta non siano più di cinque”, disse.

“Ci starò attento”, balbettò il prete.

“Mi raccomando… Se ha bisogno di me sono nella stanza 2. Chieda del cancelliere Rizzo…”

“Me lo ricorderò. Grazie”.

L’omino fece un gesto con la mano che non si capiva cosa volesse dire ed uscì. Il prete ripose il fazzoletto, inforcò di nuovo gli occhiali e riprese a leggere.

“Ritenuto che non è da farsi grave appunto al giudicabile perché si allontanò dal paese quando si sparse la voce dei fatti accorsi, e si investigava sui medesimi, ma può essere che egli volesse sottrarsi alle conseguenze del suo operare, ma può anche essere che motivi famigliari lo richiamassero altrove proprio in quei giorni e con ciò restante spiegato fino a un certo punto il di lui non soverchiante ritardato ritorno.

Ritenuto inoltre che non si ha possibilità certa di escludere che l’allontanamento dal paese fosse dovuto a manifestazioni ostili anche dei paesani circonvicini, venuti a conoscenza dei fatti e che già ebbero a fare oggetto di scherno il Don Raddi con appellativi sconvenienti e con atti ostili in special modo il lancio di pietre, già verificatosi durante la benedizione delle case nel periodo pasquale.

Ritenuto però che manca ogni legale fondamento alla difesa che sostiene essere minorata la credibilità delle due deponenti La Torre e Rimini perché costituite in età che non ammette il giuramento delle loro dichiarazioni.

E’ un argomento trito e ritrito che la prova in codesto genere di reati la si ottiene dalla nuda e semplice dichiarazione del leso, era altrimenti inutile che il legislatore parlasse di soggetti passivi minori di sedici anni in questi reati che certo si commettono e con maggiore facilità nell’assenza di testimoni.

Ritenuto peraltro che non manca nella specie la presenza di testimoni tale da dar forza al deposto della La Torre e della Rimini.

Ritenuto infatti che per quanto riguardava la La Torre, Manna Franca di anni 19, ha deposto con giuramento che essendo a trovare la sorella Luigia alla filanda del Balla vide una paio di volte il Don Raddi mettere le mani nelle parti genitali della Bianca che copriva con la sua veste. Lo stesso, una volta, vide il giudicabile commettere cose luride sulla Rimini Matilde.

Vero è che l’altro ieri venne a ritirare la confessione fatta innanzi al Pretore dicendo che a dir ciò fu indotta dal Commendator Balla, volendo esso così suffragare la propria denuncia in altro tempo presentata allo stesso Pretore. La Corte ha giudicato non improbabile che la recente ritirata muova invece da imperio paterno, se risulta che il padre della Manna Franca si era detto dispiaciuto con il Balla per il coinvolgimento della figlia nella vicenda e di seguito nella procedura.

Grande elemento difensionale si ritiene la circostanza che le giovani e, in particolare, la Lecci lasciarono passare mesi senza parlare di questi fatti, non considerando che il pudore dell’età è un certo ostacolo a cotali confidenze. Se non ché parlarono tardivamente sì, ma parlarono abbastanza e a lungo, rivelando come le bassezze degli istinti di taluno l’avessero poste in condizione d’essere soggiogate per paura e per vergogna.

Ritenuto con la difesa che la stessa Manna Franca, prima di ritirare le proprie dichiarazioni, ebbe ad affermare che narrando dello stacco del bottone della Rimini Matilde, soggiunse, quando vidi che il Maestro (Don Raddi) le metteva le mani alle vergogne, mi voltai dall’altra parte.

Ritenuto che se il fatto della Lecci, come esplicitato, non può contestarsi al prevenuto, il fatto però sta e comecché precedente a quelli ad esso rimproverati, costituisce nel Don Raddi, la più evidente capacità in lui di delinquere nella specie.

Ritenute inammissibili dicerie di paese attribuite in special modo a donne assoggettate dal giovane ed aitante sacerdote, secondo le quali La Torre Guglielma non si sarebbe suicidata, ma sarebbe stata spinta dalla roccia nel torrente Limenta e questo perché ciarle non confermate la vorrebbero amante segreta e incinta di qualcuno e si è arrivati ad affermare del Commendator Balla.

Ritenute dal medico insignificanti le tracce sul collo della La Torre, dovute alla caduta e non a strangolamento.

Ritenuta, se non ammissibile, almeno di un certo interesse onde conformarsi al contesto, la testimonianza di Polli Vera (pur concordando con la difesa sulla di costei insania mentale, rilevata con certificato del dottor Barra) quando ella dichiara di aver notato turbamento nel Don Raddi al momento della Sacra Confessione, ove ella rivelava che il cavalcare l’asino le provocava piacere fino all’estrema estasi venerea.

Ritenuto, nonostante il dibattimento ne sia stato pregno, insignificante motivo difensionale l’irragionevolezza e enormità del reato ascritto al giudicabile che abbia voluto e non abbia saputo resistere alla tentazione di insozzarsi negli atti e abbia amato rendersi volontario e recidivo sopra fanciulle minori, con tanta poca riservatezza.

Ad ogni modo per vedere come dall’alto di sublimi posizioni l’uomo non resista alla bassezza e turpitudine dei propri istinti, basta leggere poche pagine dei testi del Mantegazza (testi che si cominciano, ma dei quali non si regge alla lettura della fine).

Ritenuto che si volle dare credito e importanza alle ire partigiane del paese e dei circonvicini, per togliere efficacia alle dichiarazioni testimoniali.

Ritenuto che si ebbe modo più volte di richiamare la difesa a desistere dal tirare in ballo presunte pressioni del Commendator Balla al fine di costringere la La Torre e la Rimini a inventarsi le accuse al giudicabile.

Ritenuta non attendibile la testimonianza della vecchia Galli Maria Assunta la quale avrebbe sentito dire da persona imprecisata che il Balla avrebbe offerto dei soldi al padre di Rimini Matilde al fine di convincere la figlia a dichiararsi vittima delle attenzioni del Don Raddi. Lo stesso non rilevante apparve la notizia che il Rimini poté acquistare un calesse nuovo che poi ha dichiarato essersi potuto permettere solamente grazie a una vita risparmiosa e tutta dedita al lavoro.

Ritenute calunniose e prive di fondamento le voci che vorrebbero la La Torre Guglielma in attesa di un figlio proprio del Commendator Balla Guido, cosa non provata e destituita di fondamento dallo stesso Balla, sansepolcrista e squadrista, uomo pio e lavoratore, solo dedito alla famiglia e agli amatissimi figli la cui posizione di rilievo nel paese lo ha reso spesso vittima di malelingue e di diffamatori senza scrupoli.

Ritenuta non ammissibile, se non inattendibile, comunque lontana dagli avvenimenti oggetto di questo dibattimento, l’affermazione della piccola Costa Anna che avrebbe sentito la La Torre Guglielma pronunciare le parole, -Se viene a sapere che aspetto un bambino va a finire che mi ammazza-”.

 

“Ritenuto infine che si volle mettere su, dando voce a malelingue e a perdigiorno, un inesistente interesse da parte del Sansepolcrista e squadrista Commendator Balla Guido a voler infangare l’onorabilità e la rettitudine morale del giudicabile Don Raddi, convincendo in vari modi le sue lavoranti a testimoniare contro di lui, non essendovi per questo alcuna ragione, visto che il Balla non aveva mai manifestato nessuno motivo di ostilità verso il su nominato sacerdote, e anzi, fece officiare presso la di lui parrocchia, la prima comunione del figlio Renzo.

Ritenute prive di fondamento e del tutto estranee al dibattimento le possibili giustificazioni dell’insano gesto della La Torre Guglielma, del cui suicidio non fu rinvenuta nessuna lettera che ne spiegasse i motivi, già sufficientemente chiarito fu il fatto per via delle molestie subite dalla sorella che tanto turbarono quella giovane fragile mente.

Ritenute prive di fondamento e del tutto estranee al processo le voci che volevano simulato da altri il suicidio della giovane, in realtà senza nessuna prova che confermi questo e che dia rilevanza all’ipotesi che la La Torre sia stata uccisa e gettata nel torrente dalla roccia.

Il tribunale rigetta come inattendibili tutte le argomentazioni della tenace difesa dell’imputato.

Non può il tribunale dare importanza al fatto che si ebbe una lite fra il giudicabile e alcuni parrocchiani che avrebbero preferito il vecchio parroco di Campiresia, rimosso dalla sua sede perché bevitore e giocatore d’azzardo.

Nemmeno importanza può essere data alle voci che vorrebbero la Lecci Adalgisa d’anni 18 ostile verso il Don Raddi che, anziché lasciarsi andare con lei, l’avrebbe respinta essendo la Lecci insanamente innamorata di lui. Trattandosi di voci inafferrabili nella loro indeterminatezza, esse risultano rigettate dal dibattimento e non rappresentano motivo per attenuare la posizione dell’imputato.

Venne solo il vecchio Umili Giovanni a parlarne, ma in modo confuso così che quanto da lui proferito non fu ritenuto probante e ascoltabile in questa sede.

E vi fu anche la loquace Palloni Gina che narrò di aver inteso la La Torre Bianca, fatto da questa smentito, aver detto: “Se non accuso il prete mi licenzia”.

Si tentò anche di affermare che prima della testimonianza davanti al Pretore le due giovani vennero quasi ubriacate, ma loro ammisero solo un bicchiere di vino bevuto in compagnia e pagato è vero dal Balla Guido. Cosa che del resto il Balla spesso faceva per rendere più gaio e sereno l’ambiente dove il lavoro si svolgeva e per smentire le voci che lo volevano affibbiare le subalterne con le più dure reprimende.

Che se infine l’Autorità Ecclesiastica non credette di procedere a inquisire contro il sacerdote, ciò nulla rileva per il giudizio, e non può ritenersi attributo difensionale, perché quell’autorità è foro eminentemente etico, mentre il Tribunale è foro Giuridico, e giuridicamente e obiettivamente diede ragione del giudizio che va  a emettere, accreditando comunque il giudicabile delle circostanze attenuanti.

Ritenuto che sia giusto partire da un anno di reclusione aumentato di un sesto per la continuazione del reato, riducendo poi di un sesto per le attenuanti,

 

Il Tribunale,

visti gli articoli 335 capoverso 336 n. 2, 53, 79 del codice penale, 397, 508, 509 codice di procedura penale.

DICHIARA:

Raddi Nicola Giovanni colpevole dell’ascrittogli delitto e lo condanna alla pena della reclusione per mesi 11 e giorni 20, computata la carcerazione presofferta, ed alla multa di L.125.

Lo condanna inoltre alla refusione dei danni verso le parti lese e nelle spese del processo, in esse compresa la tassa di L. sessanta.

Pistoia, lì 18 agosto, 1926”.

 

L’omino entrò nella stanza in silenzio, quasi in punta di piedi. Ora il sole arrivava diritto dal finestrino posto accanto allo scaffale e inondava di luce il tavolo e il fascicolo posato là sopra.

Il prete era in piedi e guardava diritto davanti a sé..

“Padre mi sembra… Scusi mi sembra che sta tremando e non si sente bene”.

“Devo scrivere subito…”.

Il prete stava per parlare di getto e sentiva il cuore in tumulto, ma riuscì  a frenarsi e a riprendere fiato.

“Avrei, mi scusi, necessità di scrivere”.

L’omino annuì e si guardò intorno, come se stesse cercando qualcosa.

“Gli appunti di cui mi diceva prima?”

“Già, solo che qui non vedo carta e calamaio”.

“Questa stanza serve solo di passaggio per le pratiche che vengono in seguito archiviate al piano di sopra”, spiegò l’omino.

“Se vuole venire con me nella stanza 2, lì ho tutto l’occorrente. Solo che la carta me la deve pagare, sa non è che ne abbiamo molta  e il lavoro è tanto…”

“Certo, non credo vi siano difficoltà”.

“Gliela regalerei volentieri, ma poi se manca il materiale di cancelleria ecco che ci vado di mezzo io”.

“Capisco”.

“Deve scrivere molto?”

“Al Vescovo… Subito… Al Vescovo”.

L’omino lo guardò con curiosità. “Ma è sicuro di sentirsi bene?”

“Sì, è solo un po’ caldo e ora sta pure entrando il sole”.

“No, glielo chiedevo perché ha una faccia bianca, come se stesse per avere una mancanza”.

“Non ho niente, non stia a preoccuparsi”.

“Io lo dicevo per il suo bene”.

“Le ripeto che non ho niente, devo solo scrivere urgentemente al vescovo”.

“Non vuole nemmeno un bicchier d’acqua?”

“No, la ringrazio lo stesso, non si preoccupi, andiamo in questa stanza 2, su”.

Così dicendo il prete si avviò alla porta seguito dall’omino che continuava a dondolare la testa perplesso. (1)

 

(1) La vicenda è completamente inventata, così i nomi e i luoghi. Il dispositivo della sentenza e lo “stile” burocratico-giudiziario, con tutte le sue ripetizioni quasi ossessive, è ispirato al brano “Corruzioni di minorenni!” di Biagio Laprea, apparso nella rivista “Legenda” (Tranchida Ed.) Aprile 1989.