Se, come sostiene Henning Mankell, “l’atto criminale serve da specchio per esaminare la società”, nell’ambito del giallo storico il crimine letterario offre il destro per rileggere ed esaminare il nostro passato, non di rado andando a scomodare pagine dolorose e sanguinose della nostra Storia più recente.
E’ il caso, per esempio, della cospicua produzione poliziesca che sceglie come proprio periodo di riferimento il secondo conflitto mondiale, momento storico ancora oggi oggetto di accese dispute e controversie in quanto conflitto di carattere ideologico e quindi, come tale, fonte di divisioni, lotte e strascichi sanguinosi all’interno degli stessi Stati belligeranti.
La frase iniziale di Mankell si inserisce autorevolmente nel coro di quanti individuano in quella che lo scrittore Giulio Leoni ama definire “letteratura di tensione” il “nuovo romanzo sociale”, in quanto sarebbe ormai la sola forma narrativa capace di raccontare criticamente la società contemporanea attraverso i suoi misfatti:
Il giallo viene usato oggi – scrive Giuliana Pieri - come strumento che garantisce la tensione e l’interesse del lettore ma anche come veicolo privilegiato per indagini diverse – storiche, sociali, esistenziali – e per una ricerca di identità nella complessa e frammentata realtà contemporanea. È un ritorno alla narratività che riesce a catturare nelle sue trame complesse la diversità e pluralità del reale e può contare su due secoli di tradizione letteraria sua propria con cui giocare con rimandi intertestuali ironici. [1]
Forse, questa valenza sociologica è un peso gravoso da caricare sulle spalle di un genere letterario nato per l’intrattenimento, ma è un fatto che, col passare del tempo, la “vocazione sociale” del giallo si manifesti con progressiva evidenza in molte opere, esplicandosi soprattutto nell’attenzione verso quella contemporaneità, dunque, della quale diventa strumento privilegiato di analisi e narrazione.
Questo, però, è quanto accade oggi.
Tornando, però, agli anni del secondo conflitto mondiale, un simile discorso potrebbe essere esteso anche al giallo italiano degli anni Quaranta?
A questo proposito, va subito formulata una prima riflessione: per quanto ci riguarda, non abbiamo, o quasi, una produzione significativa contemporanea agli eventi dei quali ci stiamo occupando.
Mancano, per così dire, delle “fonti dirette”.
Le ragioni sono molteplici e riconducibili proprio agli eventi storici che hanno condizionato l’evoluzione del romanzo poliziesco in Italia: prima gli interventi della censura, volti ad attenuare qualunque pretesa di critica sociale o politica, poi la sospensione delle pubblicazioni del GM nel 1941, in analogia a quanto accade al romanzo poliziesco negli altri Paesi dell’Asse, ci privano sostanzialmente di elementi di riferimento concreti, laddove nel mystery e nella spy-story di area anglofona il riferimento al contesto storico e politico contemporaneo risultava sicuramente più marcato e riconoscibile.
Basterebbe pensare al libro di Eric Ambler, recentemente ripubblicato da Adelphi, Motivo di allarme, nel quale troviamo un interessante ritratto della situazione italiana alla vigilia del conflitto, così come poteva essere percepita da un funzionario britannico chiamato a lavorare nella filiale milanese di un’industria bellica britannica: la ferocia degli agenti dell’Ovra, che non disdegnano metodi degni dei gangster d’oltreoceano (rapimenti, pestaggi, minacce), e le insidie velenose delle spie naziste vanno di pari passo con l’ipocrisia e l’opportunismo dei datori di lavoro d’oltremanica, per cui il protagonista si trova coinvolto in un oscuro complotto e per salvarsi dovrà fare affidamento esclusivamente sulle proprie insospettabili risorse.
Nei Paesi dell’Asse un simile realismo sarebbe stato a dir poco impensabile e, volendo analizzare una realtà differente da quella italiana, il caso del Giappone diventa, al riguardo, emblematico.
Come scrive Lucia Guardavilla, anche nell’impero del Sol Levante
“la narrativa poliziesca ha subito la sorte di essere etichettata come letteratura di intrattenimento, quindi di seconda classe, però essa ha avuto uno sviluppo del tutto singolare. Infatti, più che privilegiare il ragionamento, l’investigazione, cioè conformarsi alle regole del poliziesco ortodosso (honkaku tantei shôsetsu), il giallo giapponese si è concentrato sul mondo dell’illusione, sull’esaltazione delle mostruosità umane, delle perversioni sessuali, creando atmosfere fantastiche e grottesche come sfondo di crimini orribili. [2]
Il ruolo di Edogawa Ranpo e della rivista “Shinseinen” (Gioventù nuova, 1920-1950) nella diffusione di questa corrente atipica, innovativa se vogliamo, risulta determinante e così come il Giallo Mondadori diventa in Italia il punto di riferimento per un’intera generazione di autori, in Giappone molti dei più prolifici scrittori di gialli d’anteguerra quali Yokomizo Seishi, Mizutani Jun, oltre allo stesso Edogawa Ranpo, conoscono il successo grazie appunto a “Shinseinen”, soprattutto nel periodo d’oro degli anni Venti, mentre, a partire dal 1938, l’atmosfera cambia decisamente di segno. La Seconda Guerra Mondiale è, infatti, ormai alle porte e le autorità nipponiche proibiscono, in campo letterario, quanto è da considerarsi nemico, straniero, per cui il racconto poliziesco cade sotto la scure della censura, in quanto ritenuto un genere d’importazione, che rappresenta, per di più, un elemento moralmente disgregante nell’ambito dello sforzo della nazione contro il nemico straniero, presentando episodi di violenza tra concittadini.
La censura – scrive ancora la Guardavilla - non si abbatté su l’intera gamma dei sottogeneri del mystery, anzi il romanzo di spionaggio e il torimonochô furono addirittura incoraggiati. Il torimonochô, ambientando i propri casi criminosi in epoche passate, non costituiva una minaccia, al contrario l’ottimismo che diffondeva e l’esaltazione della morale confuciana lo rendevano un genere molto apprezzato, addirittura sfruttato dalle autorità per giustificare l’ideologia di guerra [3].
Per molti autori non rimane quindi che interrompere la propria attività letteraria, come farà Edogawa Ranpo, o dedicarsi ai generi “permessi”, continuando a coltivare segretamente il fuoco di una passione letteraria che si tradurrà nel boom editoriale del decennio postbellico ‘45-’55, che offre al mystery notevoli possibilità di ripresa.
Anche in Italia, come abbiamo visto, l’esperienza della guerra tarpa le ali ai nostri autori, ma la pubblicazione di storie poliziesche, nonostante la soppressione del Giallo Mondadori, continua nel corso del conflitto sfruttando altre collane, come i celebri “Romanzi della Palma”, “I Romanzi dell’Enigma” della Sonzogno, trasformatisi poi nel 1943 ne “I Romanzi Gialli e dell’Enigma”, oppure attraverso iniziative editoriali minori, come “I Romanzi del Coprifuoco” (1944) o le collane curate da un autore vicino al fascismo come Carlo Brighenti, tra le quali ricordiamo “I gialli del gufo nero”, che annoverano un curioso giallo di ambientazione spagnola, con vibranti accenti propagandistici filofranchisti, di Ignatio Ojen (“A Toledo si muore!”), pseudonimo sotto il quale si cela lo stesso autore-editore, oppure “I romanzi dell’indagine” (1943 – 45), che ospitano molti autori tedeschi, tra i quali spicca Herman Hilgendorff, forse il più tradotto tra gli scrittori del regime nazista. Vista l’evoluzione della situazione politica, del resto, è naturale che l’Italia fascista faccia, a un certo punto, riferimento alle produzioni di area tedesca, dove si afferma la consuetudine di sfruttare una neutra scenografia danese, da un lato per evitare anche solo di menzionare l’odiato mondo anglosassone, “corrotto” e “decadente”, dall’altro per non dover collocare fatti criminosi nella Germania nazista.
Esemplare, al riguardo, il romanzo di Otto Schrayh, “Una radio chiama a mezzanotte”, che, tra l’altro, è interessante anche per l’attenzione rivolta al tema dello sviluppo della fisica nucleare e della scienza in genere, leit-motiv presente nella propaganda nazista dell’epoca con sempre maggior insistenza, soprattutto quando le sorti del conflitto iniziano a volgere al peggio.
Come evidenzia Maurizio Pistelli nel suo interessante e documentatissimo studio “Un secolo in giallo” [4], questo tema viene proposto anche da alcuni autori di casa nostra, ad esempio Edoardo Antòn ne “Il mistero della casa crollata” o Leonello Martini con “I morti che cantano”, ma il più noto resta Vasco Mariotti, che ne “L’uomo dai piedi di fauno” colloca, nell’ambito di una vicenda caratterizzata dai toni del più classico feuilleton, uno scienziato talmente ossessionato dai propri esperimenti da non esitare a utilizzare cavie umane. In molti casi, risulta ambiguo il giudizio etico e morale che si elabora di simili delitti, per cui non possiamo non provare un brivido quando leggiamo le parole con cui il fascistissimo commissario D’Abate protagonista de “L’Osteria della Fame” di Carlo Brighenti apostrofa uno scienziato, autore di crimini che oggi definiremmo “contro l’umanità”:
“[…] Non si ha il diritto di uccidere oggi, anche in nome della scienza. Forse verrà un giorno nel quale questo sarà permesso a degli scienziati, che come voi sono pensosi delle sorti non dell’uomo ma degli uomini.” [5]
Quei tempi saranno purtroppo molto più vicini di quanto l’autore stesso possa immaginare e alle persone immolate nel nome di aberranti teorie razziali e pseudo - scientifiche si sarebbe persino giunti a disconoscere lo status di essere umano.
Il divampare della guerra, dunque, traspare solo in alcuni romanzi, acutamente analizzati da Marco Sangiorgi [6], che si pongono in un’ottica fiancheggiatrice rispetto alle esigenze della propaganda fascista. Spiccano le figure del commissario Orazio Grifaci, creato da Carlo Brighenti, vero “campione” di virtù littorie, per non parlare del sinistro ispettore nazista Welf Schurke, che l’autore Romualdo Natoli modella sugli ideali hitleriani trionfanti nell’Europa sottomessa, per cui l’Austria annessa al Reich e la Francia piegata, o meglio “pacificata”, dalle armate del Fuhrer fanno da sfondo alle avventure di una delle più inquietanti figure di detective rintracciabili nel panorama giallistico italiano (L’uomo e la folla, 1941; I due testamenti, 1941; L’incubo sulla metropoli, 1941; Il marchio di Giuda, 1941; Il mistero del poligono, 1941).
L’odio antinglese e l’antisemitismo di Natoli sono viscerali e segneranno per sempre la carriera di questo prolifico autore che, nel dopoguerra, sarà costretto a firmarsi sotto pseudonimo e a rivedere almeno in parte le proprie convinzioni in tema di politica internazionale, anche se ritroviamo ne L’artiglio insanguinato del 1949 un ispettore di Scotland Yard che si chiama Wolf Churk (!) con caratteristiche fisiche praticamente identiche al quelle del suo “collega” nazista Schurke. Decisamente non abiura quelle razziali, però, che tornano a fare sorprendentemente capolino anche in diverse sue opere edite nell’immediato dopoguerra [7].
Del resto, in relazione al tema del conflitto, la ripresa all’indomani del conflitto non porta contributi significativi sotto il profilo della produzione nostrana, soprattutto per quanto concerne la sparuta pattuglia di autori italiani del rinato Giallo Mondadori. Fanno eccezione alcuni romanzi comparsi nella collana “I fascicoli della Sfinge” della casa editrice Costelli, che annoverano un ormai introvabile “Ai ferri corti con la banda Koch” di Lucio Nicolini, nel quale l’agente segreto statunitense Walter Raft, un aitante texano di madre italiana, deve introdursi a Villa Triste per salvare un apolide ebreo dalle torture del famigerato Koch, sinistra figura sulla quale l’autore si sofferma a lungo con ampie descrizioni che attingono certamente alle verità emerse nei processi del dopoguerra, condite con un tocco di sensazionalismo e di gusto del macabro per esigenze di cassetta, lasciando però trasparire anche l’amarezza per le prime disillusioni del dopoguerra.
Di tenore non molto differente sono altre avventure della stessa collana, tra le quali ricordiamo “Nel covo delle SS” o “Il segreto della V1” di Lorenzo Manfré, ma, nel complesso, è davvero troppo poco per parlare di una rielaborazione critica dell’esperienza bellica e fascista da parte dei giallisti italiani dell’immediato dopoguerra. Sarà “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, il capolavoro gaddiano scritto durante il conflitto e pubblicato nel 1957, col suo gusto per la satira di costume espresso attraverso un ardito ed elaboratissimo sperimentalismo linguistico, ad aprire la via verso una meditazione e un’analisi letteraria che troverà, nei decenni successivi, un’eco significativa anche nella produzione del romanzo poliziesco italiano.
[1] Cfr. Pieri Giuliana, Il nuovo giallo italiano: tra tradizione e postmodernità, articolo on-line.
[2] Cfr. Guardavilla Lucia, Dietro lo Shoji. I mondi segreti di Edogawa Ranpo, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Scienze della Formazione, Laurea in Lingue e Letterature Straniere, a.a. 1998 – 1999, Relatore: Prof. Sagiyama Ikuko, Correlatore: Prof. Francesca Fraccaro, pp. 2-3.
[3] Guardavilla, cit., p. 24
[4] M. Pistelli, Un secolo in giallo, Donzelli, Sull’argomento, cfr. anche AA.VV., Le figure del delitto: il libro poliziesco in Italia dalle origini a oggi, Bologna, 1999, passim.
[5] C. Brighenti, L’Osteria della fame, in “Secondo Ultragiallo”, Attualità, Milano, 1938, pp. 199-200.
[6] Marco Sangiorgi, Il poliziotto fascista. I gialli di Regime di Carlo Brighenti e Romualdo Natoli, articolo on-line; ma anche Sangiorgi M. – Telò L., Il giallo italiano come nuovo romanzo sociale, Ravenna, 2004
[7] Cfr. M. Pistelli, cit., pp. 253 – 254 ma anche Bartocci U. (a cura di), Nascita morte e resurrezione del giallo in Italia, on-line su: www.cartesio-episteme.net/
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID