La struttura di Tutti gli uomini del Re di Steven Zaillian (sue le sceneggiature di Schindler’s List, Hannibal, Gangs of New York), remake omonimo del film di Robert Rossen del’49, è quella classica del rise and fall, dove a salire prima e a cadere poi è Willie Stark (Sean Penn), politico idealista e attivista leader dei diritti civili nel sud degli Stati Uniti degli anni Trenta (il nome del vero governatore della Louisiana di cui si racconta la storia è Huey Pierce Long, soprannominato "Kingfish").
Prima Stark sale, sino alla carica di Governatore della Lousiana, perché sa toccare le corde più intime delle folle con qualcosa, l’umile origine e un certo respiro messianico nei suoi comizi, che i politici di mestiere non sanno neanche dove sta di casa. Poi Stark cade, perché una volta giunto dove voleva, diventa né più né meno come quelli che fino ad ieri l’altro aveva combattuto.
Il punto di vista dal quale è dato di osservare la vicenda è quello del giornalista Jack Burden (Jude Law), un punto di vista a prospettiva variabile, ora obiettivo ora no, visto che da semplice cronista sulle tracce di un astro nascente della politica, finisce col diventarne una sorta di spin-doctor ante litteram, colluso alla fine forse al di là delle sue reali intenzioni.
Sul perché della caduta le informazioni scarseggiano, così che non rimane altro da fare che attribuire la perdizione nella quale Stark sprofonda per metà all’ineluttabile destino connesso alla fallibilità umana, e per l’altra all’ambiente stesso nel quale Stark si muove ispirandosi alla massima "colpire il leone avversario perché le altre belve tacciano".
Il finale (drammatico…) del film parla chiaro però: visto che gli elettori, che ieri come oggi restano i giudici primi e ultimi della carriera di qualsiasi politico, si schierano senza dubbio dalla parte del loro paladino, ciò è segno che qualcosa di buono Stark deve averlo fatto per forza.
Grande dispiego di mezzi, fotografia DOC, molto chiaroscurata come si conviene ad una storia così in bilico tra luci e ombre, interpretazioni di maniera di quasi tutti tranne che di Sean Penn, che alle prese con un personaggio a tratti luciferino dà il meglio di sé soprattutto nei comizi dal palco (resi con montaggio scarno e camera fissa quasi sempre in primo piano…), veri e propri sermoni divisi tra populismo e demagogia, ma con quel sottofondo misticheggiante che evidentemente fa sempre breccia (peccato il doppiaggio…).
Però la sensazione di una storia che non decolla mai c’è e rimane.
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