Quando infine gli errori sono consumati, scriveva Bertolt Brecht, resta davanti a noi, come ultimo convitato, il nulla. Il nulla corrisponde quindi alla verità, o almeno all’assenza di errori, alla loro estinzione. È la verità che emerge in seguito al crollo di ciò che la copriva e nascondeva.

Il protagonista di Ieri, Tobias, dice che per essere scrittore bisogna prima diventare nulla. L’annullamento è la condizione necessaria della scrittura. Ciò che viene scritto è la messa in parola del niente, e a questo niente rimanda tanto il linguaggio quanto la forma del racconto.

In tutti i romanzi di Agota Kristof è presente la morte, come minaccia di annientamento del singolo a causa della guerra, o come autoannullamento che dalla guerra stessa consegue e discende. La morte è tanto nella storia, cioè nella narrazione, nel racconto vero e proprio, quanto nelle parole che lo costituiscono.

Il linguaggio di Ieri, come quello della Trilogia della città di K, è scarno e secco come la morte stessa. Forse è quanto di più vicino alla cancellazione del linguaggio stesso inteso come possibilità espressiva o comunicativa e alla sua riduzione a inventario e cronaca della catastrofe, cioè dell’ineluttabilità dell’annullamento di personaggi e parole nel nulla della morte.

L’esule Tobias, protagonista di Ieri, emigra in Svizzera per cercare una vita migliore, che valga la pena di essere vissuta, lontano dalla devastazione della guerra. Invece trova lo stesso nulla che lo schiacciava in patria.

Incontra Line, la sorellastra che non sa di esserlo e lo ricorda solo come compagno di scuola, anche lei emigrata, sebbene temporaneamente, al seguito del marito ricercatore, e con figlio a carico.

La vicinanza di Line rende sensata la vita del protagonista, che sente il ruolo di fratello maggiore protettivo e promette di difendere la donna, di tenerla lontana dal dolore e dalle ferite. Per questo accoltella il marito di lei, che vuole riportarla in patria, lontano da lui, ora che il suo contratto di lavoro all’estero è terminato.

Tenta di ucciderlo ma le ferite non sono letali. La sorella-amante tornerà in patria abbandonando il fratellastro e scegliendo la sicurezza e la stabilità che il marito le garantisce.

Ciò che apre e chiude il romanzo è il vuoto della solitudine dell’emigrante, perso e bloccato in un paese sconosciuto e se non ostile certo indifferente, in cui l’unica attività sensata è la scrittura che il protagonista pratica ogni giorno al ritorno dal lavoro.

E ciò che scrive il personaggio Tobias è il romanzo stesso, fuga dal nulla che dà luogo a pagine in cui il soffocamento graduale della morte lenta è presente e dominante.

Il lessico, la sintassi, l’argomento, il tono, l’intenzione, tutto converge in un unico dato che inghiotte ogni dettaglio della scrittura di Ieri, quello dell’annientamento, dell’azzeramento delle possibilità di conoscenza umana e di condivisione.

Pur senza raccontare la morte fisica di nessuno dei suoi personaggi, l’autrice racconta una morte più comprensiva e generale, che è la morte del racconto e della narratività e quindi l’avvento di un modo di scrivere totalmente alieno alla vita e al dato esistenziale, ineluttabilmente aderente al nero dell’assenza e della privazione.

La scrittura della Kristof nasce dal nulla, dall’annullamento dello scrittore come persona, dalla sua scomparsa. Da questa negazione della soggettività e dell’individualità emerge un raccontare che riproduce eventi, serie di atti e parole, e niente al di fuori di questi.

A prima vista, quindi, sembrerebbe possibile accostare stilisticamente Agota Kristof alla crime fiction americana più recente, quella di James Ellroy per esempio, che racconta la propria storia con un linguaggio spoglio e secco come una fucilata. Ma a ben vedere un tale accostamento sarebbe del tutto inappropriato, perché la somiglianza è puramente formale.

Il raccontare della Kristof nasce dalla negazione dell’autorialità, di quella che Michel Foucault chiamava la “funzione dell’autore”, e quindi non è in nessun modo – né vuole essere – espressione di una soggettività, di una originalità individuale, come invece avviene con Ellroy.

Il “pragmatismo” tipico del noir comanda la verosimiglianza del narrato e ha come finalità la creazione di un universo narrativo che innanzitutto assomigli alla realtà (e nei casi peggiori, la copi).

Da questo assunto viene l’adesione ai fatti tipica della crime fiction americana.

Diverso è invece il caso della scrittrice ungherese. La concretezza del linguaggio della Kristof porta alla realizzazione che ciò che manca, cioè tutto quello che non è fattuale e che rimane quindi fuori dal racconto, è ciò che solo potrebbe rendere l’universo romanzesco sensato e razionale.

L’assenza di determinazioni ulteriori che trascendano i dati della cronaca produce un vuoto di senso e la chiara percezione, da parte del lettore, che ciò che viene raccontato è l’involucro morto di una vita che non può farsi parola.

È questa intimità e continguità con la morte e il nulla che accomuna i romanzi di Agota Kristof e il nostro Genere, così come si va delineando negli articoli di questa rubrica.