Peccato.
C’erano tutte le premesse perché l’ultimo romanzo (il terzo della serie, questo Si è suicidato il Che) di Petros Màrkaris fosse, se non un capolavoro, certo un ottimo noir.
Un detective ateniese, il commissario Kostas Charìtos, che si guadagna pagina dopo pagina il banale soprannome di Maigret greco appioppatogli da un critica senza fantasia, spalancando una finestra sulla sua vita matrimoniale con Adriana e la figlia Caterina, fatta di tanta faticosa quotidianità, molta pazienza e qualche squarcio di sereno grigiore.
Una capitale greca miracolosamente immune da bellezze turistiche e/o archeologiche e viceversa ostaggio di un caldo feroce, di un traffico infernale, reso parossistico dai lavori per l’Olimpiade 2004, di improvvisi nubifragi che trasformano le sue vie in torrenti impazziti, di quartieri degradati dove vivono extracomunitari in attesa del passaporto per il paradiso europeo.
Un background socio-economico che coniuga i recenti fasti olimpici, peraltro non esenti da pesanti sospetti di intrallazzi, con la pesante eredità della Grecia dei colonnelli tra vecchi torturatori emarginati ed ex torturati, duri e puri, convertitisi disinvoltamente all’economia di mercato e agli aiuti elargiti dagli euroburocrati di Bruxelles.
Una vicenda infine al limite dell’assurdo con tre suicidi in sequenza, di cui due televisivi, di noti personaggi greci (un imprenditore, un politico e un giornalista) accomunati, nell’ordine, da un passato di oppositori di sinistra, da un presente di affermati uomini di mondo e da un futuro di protagonisti di sospette biografie, a firma del fantomatico Minàs Logaràs, uscite un po’ troppo tempestivamente a cadaveri ancora caldi.
E poi, sullo sfondo, le meschine lotte di potere all’interno della polizia con il sostituto di Charìtos, Iannoutsos, che cerca di approfittare del congedo per malattia del primo per fargli le scarpe; o le acrobazie diplomatiche del capo del nostro commissario, Ghikas, che deve mediare tra le esigenze del governo, che vuole evitare lo scandalo, delle (consolabili) vedove, che non intendono approfondire le cause della morte dei loro coniugi, di Charìtos, che col solo aiuto della bella Koula (poliziotta finta oca), sdipana il bandolo dell’aggrovigliata matassa.
Peccato, dicevamo.
Perché quando nel finale doverosamente aperto (Dürrenmatt e Sciascia non sono passati invano) Màrkaris finalmente dà una spiegazione dei tre suicidi pilotati e un volto al responsabile dell’inconsueto crimine, inevitabilmente affiora la delusione. Pur attingendo infatti senza risparmio alla storia (i rivoluzionari duri e puri sotto il regime dei colonnelli), alla psicologia (i difficili rapporti filiali) e alla sociologia (la metamorfosi capitalistica dei puri di un tempo), la verosimiglianza è postulata più che rappresentata e solo la buona volontà del lettore consente all’autore di far digerire una spiegazione assai più improbabile di quelle dei più lambiccati gialli all’inglese.
Così si disperde un patrimonio lentamente accumulato pagina dopo pagina dall’ispido buongustaio Charìtos: e così forse si spiega la cadenza eccezionalmente lenta della serie creata da Màrkaris, a testimonianza forse di una non eccezionale vena creativa per quel che riguarda l’intreccio; o magari della mancanza di fiducia in un genere evidentemente sentito come secondario rispetto alla sua produzione “ufficiale”.
Peccato, appunto.
Voto: 6.5
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