Confesso tutto, giuro. Quanto state per leggere è rigorosamente vero e per nulla vietato. Viviamo in un’epoca in cui lo scrittore non esiste, se non spettacolarizzato, in rari casi, e sono casi in cui la sua vita viene formattata secondo un’icona di Windows, una clip-art di Corel Draw che corrisponda all’idea comune che ci si è fatti, in venticinque anni di vita sociale indegna, dello scrittore medesimo. Che mai è ascoltato, figuriamoci se viene indagato o addirittura richiesto di confessare tic, nevrosi, ambizioni, routine.
Questo stato di cose impone timore e tremore. Impossibile vivere da scrittori: gli anticipi editoriali generalmente non bastano, la scrittura slitta nella hobbyistica, non nell’artigianato che dà da vivere – a parte alcuni casi, che comprendono vendite stratosferiche (raramente coincidenti con la letteratura e, quindi, riferibili a un autentico scrittore) oppure casistiche specifiche, bizzarre, particolari (tra queste, la mia personale). Vivere facendo lo scrittore terrorizza, se, come me, vengono scontate indicibili parapsicosi nei confronti di un futuro che si ravvede come instabile economicamente, lontanissimo dalle ambizioni soggettive non di notorietà, ma di normalità semplice, nemmeno borghese. Tempo di precariato, si dice; sì, ma gli intellettuali scontano il precariato da omero in giù.
Questa è una paura molto concreta, non un corredo dell’inquietudine di cui, da sempre, vado scrivendo: quest’ultima è piuttosto prodotta dalla prima. La scrittura è una vocazione che va costruendosi e il percorso storico dello scrittore (traumi, formazione sociale e famigliare, devianze del destino) ha un’influenza che io accolgo come abnorme. L’inquietudine a cui miro non è quella thrilleristica, non è anatomopatologica – è metafisica, e non a caso i modelli letterari fondamentali sono per me Franz Kafka e Wallace Stevens: un impiegato e un dirigente di assicurazioni, che spalancano - in ore misteriose - sguardi sull’indicibile. Vorrei conoscere la calma, quindi, per focalizzare meglio e non per esorcizzare l’inquietudine, la sottile linea tra l’immaginato e l’immaginario, tra realtà e sovversione dell’esistente. A ogni singola paura (nel mio caso: del cadavere, delle blatte, degli spettri, delle malattie ma non della morte) corrisponde un’inefficace terapia attraverso la scrittura, ma soltanto nel momento in cui scrivo – momento di beanza assoluta, di libertà totale, che giunge dopo un faticosissimo processo in cui mi sono imbevuto della materia di cui tratterò nel libro che si va scrivendo e, saturo come sono degli studi relativi, mando tutto all’aria, affinché il regno interiore della libertà personale sia ristabilito e torni inviolabile: è il luogo senza paura.
Queste sono però iperboli e iperurani che concernono ciò che accade nel seno di ogni scrittore, tra lobo cerebrale destro e sinistro, un poco dentro e un poco fuori dal tempo. Scendendo nella sfera ben più tangibile della vita comune che conduco, si incontrano disastri e molta meno poesia. Prendiamo il cibo. Sto lentamente slittando, con inesorabile lutto, alle bassezze di Carlo Delle Piane quando interpreta il baro in Regalo di Natale di Avati: quel personaggio che si nutriva solo di patate bollite. Ormai una dieta implacabile governa la mia esistenza, che ha smesso così di scatenarsi sull’ottovolante dell’alimentazione trash, che per anni ha sfigurato le interiora e l’esteriore. Sono normodotato, quanto al cibo. Soltanto, ho appreso che un conto è la fame e un conto è la gola: è sorprendente se si riesce a focalizzare l’attenzione sulla prima senza farsi coinvolgere dalla seconda. Questo regime di assoluta normalità mangereccia ha disvelato un effetto secondario esaltante: la mente è più lucida, si cancella l’obnubilamento. Non essendo vorace, non disponendo di un’educazione alimentare sana e pagando lo scotto di un principio di piacere ridotto ai minimi termini, non ho difficoltà a svolgere questo esercizio dietologico. Ultimamente ho perduto otto chili in tre mesi, dopo una rivoluzione copernicana che ha condotto a una nutrizione il più possibile equilibrata e sufficiente. D’altro canto, la strombazzatura consumistica dello slow-food, un’ideologia di massa che si crede anti-massa, mi è terribilmente odiosa. Non ricevo proposte di frequentare le Langhe per andare a sorseggiare preziosi vini in rustiche cantine o sbocconcellare, con espansione del gusto, intingoli locali. In quanto ideologia, l’esercizio mi risulta non soltanto noioso, ma decisamente avverso; in quanto piacere, chiarisco che non è semplicemente il piacere, che cerco, poiché esso ha un termine, doloroso – pratico piacere e dispiacere, ma miro a ciò da cui queste percezioni emergono. Il cibo non mi seduce, dunque sono incapace di sedurre tramite cibo. Prendete Suor Germana, invertitela di sesso a Casablanca e somministratele Lsd: avrete me sui fornelli. Sono stato in grado di bollire, senza accorgermi, una confezione di tre wurstel senza previamente toglierli dalla confezione in plastica. E, quanto a Lsd, fino a qualche mese fa avevo la mia privata abitudine di ricorrere a stupefacenti dosi di caffeina: arrivavo anche alle dieci tazzine quotidiane. Dall’estate scorsa, questa autosomministrazione di eccitante a una mente già sovreccitata è stata sostituita da una pratica che sfiora l’autolesionismo: bevo solamente caffè d’orzo. Sono pronto per un monastero trappista, a patto che mi permettano di scrivere quanto desidero scrivere.
Ciò che viene detto del cibo, è detto del corpo: affermano le Scritture sacre induiste che, dopotutto, il “corpo è fatto di cibo” – verità che non è tanto sacra, quanto incontestabile. Il corpo è per me, al momento e da parecchio tempo, il buco nero. La mia autostima corporea è alle altezze di quella del defunto Marty Feldman, anche se io non sono strabico ed esoftalmico, oltre a essere sicuro che Feldman disponeva di un’autostima corporea comunque più alta della mia. La dispercezione del mio corpo, da parte mia, è stellare: mi sento contemporaneamente come Sammy Davis jr. bianco ed Elvis Presley a una settimana dalla morte. Sono incapace di trattare e valorizzare con movimenti armonici una goffaggine che sento quintessenziata in me e che gli intimi smentiscono sia reale. Per me esiste un’evenienza che, a Milano, non mi dà scampo: città di vetrine, Milano mi offre il destro di sorprendermi continuamente a vedere, e con disgusto protratto, il mio corpo all’improvviso. Sogno di lasciarmi andare a un’esistenza barbonesca, ma la mia condotta igienica, di chiara natura superegoica, me lo impedisce. Ciò non impedisce però, come sottolinea la mia compagna, che io curi il mio vestiario con un gusto paragonabile a quello di Giorgio Celli quando va in tv. Sono un uomo che usa lo stile quando scrive ed è totalmente inabile allo stile nel vestirsi o nel presentarsi. Unica eccezione, quando sono stato costretto allo smoking, essendo in giuria alla Mostra del Cinema di Venezia: mi dicevano che rifulgevo, io mi sentivo il Pinguino nemico di Batman.
Questa dispercezione va di pari passo a un’ipocondria che da anni cerco di sconfiggere in un’estenuante battaglia che non si annuncia terminare. Spesso solitario, al limite dell’ursino o dell’ascetico, devo venire trascinato in viaggio, altrimenti mi ritiro in letargo financo d’estate. Temo luoghi esotici, vaccini, mete lontane prive di attrezzature mediche all’altezza della civiltà sviluppata che contesto: non è timore della morte (verso la quale nutro insanabile curiosità), ma dell’indefinito ammalarsi, di cui non si rintraccia causa o terapia. Sono l’uomo che ha perduto il contatto con la natura. Sono il cugino di città, con la quale ho un rapporto da cugino di campagna. Milano è la mia Macondo, a cui vadano sottratti la felicità e la disinibizione e il sovrannaturale fantastico: mi aggiro tra brume invernali ed estive, nella perenne polluzione meneghina, in cerca di squarci alla Ellroy, che esistono e che ormai conosco a memoria e, quindi, mi hanno stancato. Sogno di fuggire da questa specie di Glasgow meno interessante del suo corrispettivo scozzese, e non ci riesco. E’ una città che avverto secondo i canoni dell’Edipo irrisolto: la prigione materna. Non amo sfrucugliare nemmeno la storia della mia città, non sono un maniaco del territorio. Delle sue stranezze, invece, sì: i labirinti sotterranei che conducono da piazza Cinque Giornate a Chiaravalle, lo sconvolgente gigantismo interno e impenetrabile della Pinacoteca di Brera, i percorsi intorcinati della Bovisa al cui centro (sono certo) dorme la furia di un Minotauro...
Essendo uno scrittore, ho studiato e studio e non di rado mi capita di trovare analogie comportamentali o percettive con scrittori del passato: gli epistolari sono estremamente rivelatori. Differenze continue, tuttavia: per esempio, nell’ossessivo bisogno di ritualità celebrate prima durante e dopo la scrittura. A me sono estranee come la guida dello Shuttle a mia sorella. Io funziono come una parabola satellitare, non ho nemmeno la necessità del rito del telecomando che accenda lo schermo – intercetto a prescindere. E’ lo sguardo che fa tutto e, ovviamente, anche l’orecchio. Fagocito storie ascoltate o lette, scenari intravisti o contemplati a lungo. Statemi lontani o un brano della vostra vita finirà in qualche mia pagina, e può essere un’esperienza violenta per voi. Sono frammenti che ruotano intorno a un’intuizione minima, che già esprime strutture di racconto possibili. Sono i passi iniziali che conducono ai portali dello studio. Studiare è per me esprimere un odio quotidiano verso la mia attuale professione: sono un anarca dello studio, proseguirei per carotaggi casuali, completando fantasticamente lacerti minimi. Invece tocca studiare davvero e la scrittura raramente mi permette di incontrare ciò che desidero studiare sul serio, il che viene relegato in sedute di immersione notturna. Quando lo studio è terminato, non scaletto: la trama è in mente, vengo guidato da tre o quattro punti che fanno da acceleratore, e lì devo finire: non necessariamente sono scene madri. Ultimamente, trapassato dal genere thrilling a quello storico (sto accennando al libro su cui lavoro attualmente), la scalettatura è inevitabile, ma anche inevitabilmente una rottura di palle. Poi so che, nel momento preciso in cui mi metto di fronte al computer, tutto quanto ho pensato va a catafascio.
La mia prima stesura è abbastanza veloce. No, diciamo sorprendentemente veloce. Le più che 400 pagine di Nel nome di Ishmael sono state stese in due settimane, Catrame in meno di una settimana, Dies Irae (800 pagine) in un mese. La revisione mi serve a minimi tagli e ad aggiustamenti soprattutto metrici e di ritmo. Tutto ciò accade secondo scansioni di visioni che, prima, mi lasciavano attonito e venivano descritte, mentre al momento lo sguardo interno cerca di appuntarsi alla substantia nigra interna da cui le immagini emergono. Scrivo ugualmente delle visioni, ma al tempo stesso è come se fossi attento a un secondo livello, che non ha a che fare per nulla con la scrittura. E’ un modo in cui la psiche evolve e devo tirare un sospiro di sollievo, perché l’accumulo di immagini, visioni, progetti di romanzi o poemi incominciava a divenire pesantemente ingestibile: tra l’altro, sono per natura dolicocefalo, tutta quella roba non ci stava fisicamente nella teca cranica. Non che la cosa non avesse i suoi vantaggi: mai provato il terrore della “pagina bianca” – ho provato il terrore delle troppe pagine scritte, semmai. Tra l’altro, questo terrore della pagina bianca, spesso fantasmaticamente evocato dagli scrittori, non ha nulla a che fare con la scrittura stessa: ha a che fare con la psiche. E’ lì che consiglierei di intervenire, nello sciagurato caso che si presentasse un blocco di scrittura. Oppure, un franco atto di saggezza personale: attendere. Se il vasaio non ha la creta, non fa il vaso, ma prima o poi si procurerà la materia prima e la sua facoltà (che gli è inalienabile) avrà modo di esprimersi. Ci troviamo ai limiti di un artigianato che confina con l’autofagocitamento: è una situazione delicata da un punto di vista identitario, psichico. Una delle esperienze che non ho mai, fortunatamente, attraversato. Faccio gli scongiuri.
Scrivere è dunque, nella mia prospettiva, qualcosa di estremamente artigianale. Per questo mi conferisco ritmi di lavoro, che sono però furibondi e imprimono velocità all’esecuzione. Non sono mai giunto in ritardo al traguardo editoriale, semmai ho dovuto attendere moltissimo perché la scadenza editoriale giungesse, restando sul testo molto più di quanto desiderassi. In questo caso immagino di dover essere preda di tic o manie: ma il libro scritto, per me, è già un cadavere e attende soltanto, tramite la pubblicazione, di trasformarsi in fantasma, spettro, fenomeno medianico larvale, che desidera intrudere immaginari e psicologie. Il che definisce il rapporto con gli altri: tramite il libro, vorrei tentare di aprire agli altri, formulo domande. Ogni testo che scrivo è una domanda generale a cui non riesco a dare risposta e che offro ai lettori, i quali sono spesso abituati a ricevere piuttosto risposte dai romanzi. Per questo mi piacerebbe percorrere tutto lo spettro delle forme e delle poetiche tradizionali: mi piacerebbe dare agli altri risate e meditazioni, esattamente come accade nella vita quando non scrivo.
Godo della nomea di personaggio scostante, ma è una nomea che circola sempre tra persone che hanno a che fare con qualche potere, e ciò non mi dispiace. In realtà, i ritratti di me che, tramite gossip, mi giungono, mi fanno sorridere o allibire – poiché sono una persona normale, di poche pretese, capace di una socialità orizzontale che mi beerebbe, se non vivessimo in tempi di sfascio dell’empatia. Non è secondario, questo motivo antropologico: avendo vissuto tempi in cui la comunità esisteva e si faceva sentire come contenitore attivo, soffro molto gli anni attuali, che trovo grigi e deprimenti, il che mi causa una stanchezza non solamente depressiva, perché si tratta anche di stanchezza mentale – lavoro molto, nonostante la professione di scrittore lasci supporre che faccio quel cavolo che voglio tutto il dì. Non è così. Tutto appare frammentato e l’impegno fa le veci di una sanguisuga. Mi ritrovo come in certi testi di canzoni di Franco Battiato, quando enuncia il desiderio di solitudine e la stanchezza. Quell’uomo, tra l’altro, è il mio inizio in quanto scrittore: ascoltando il suo pop esoterico e parossitono, da piccolo, iniziai a imitarne i versi (i singoli dell’Era del Cinghiale Bianco, in primis) e mi dedicai alla poesia, fino a quando non approdai alla prosa per disperazione: privo di prospettive, in quanto disoccupato, proposi un libercolo sotto pseudonimo a Ferruccio Parazzoli, saggio mefistofelico ed eminenza grigia di Mondadori, il quale mi spronò (e da allora non ha mai smesso) a scrivere in prosa – cosa che mi risulta tuttora esotica, perché non riesco a trovare differenze tra prosa e poesia. La mia linea è dunque: Hugo-Kafka-Burroughs-Battiato-Parazzoli: già per questo dovrei essere fucilato sul posto.
Vivere da scrittore, insomma, non lo auguro a nessuno, se quel nessuno è configurato come il sottoscritto. Sono più le volte che maledico il fatto di avere il privilegio di vivere una vita imperniata sulla scrittura, che le volte in cui ne vado fiero. Desidero un lavoro normale, che mi affranchi totalmente da questa compulsione balzacchiana (con tutta la distanza qualitativa che mi separa dal genio Balzac; facevo solo un raffronto tra le reciproche routine di scrittura...), permettendomi una vita comune e, possibilmente, anonima.
Poiché la letteratura, per come sono andato convincendomi in questi anni, è penultimativa. Mi sono votato alla letteratura, ma al linguaggio e all’immaginazione sfugge una realtà totale, qui presente nel mondo, in me, in chiunque legga, che non può essere rappresentata in nessuna forma d’arte. Vorrei dedicarmi a questa radiazione di fondo, non soltanto ai suoi prodotti secondari, che sono i nomi e le forme. I nomi e le forme, secondo la cosmogonia delle Upanishad, sono gli elementi da cui ha inizio la costituzione elementale dell’universo. Ecco: sarei interessato a quanto viene prima dei nomi e delle forme, che non è nessun dio, ma è una continuità che fonda il magnetismo a causa del quale, da secoli, un uomo scrive e un altro legge quanto è scritto.
E’ come il sesso rispetto all’amore. Per carità: adoro fare sesso (con enormi problemi di ansia di prestazione, come immaginabile), ma sono interessato all’amore. La letteratura è sesso, se non esprime amore.
O è il colpo di fulmine, o non è, la letteratura.
Io sono interessato a quel fulmine, più che al suo colpo.
Giuseppe Genna, 1969. Italia. Ha scritto Dies Irae (2006). Attualmente svolge attività di consulenza editoriale e vive di scrittura. Sulla Rete ha fondato e diretto l'e-zine letterario miserabili.com. Ha una scrittura ritmica e vorticosa che travolge come un fiume in piena. Ha pubblicato Assalto a un tempo devastato e vile (2002), L’anno luce (2005), i thriller Catrame (1999), Nel nome di Ishmael (2002), Non toccare la pelle del drago (2003), Grande Madre Rossa (2004). Dal protagonista dei suoi thriller, l’ispettore Guido Lopez, RaiTre ha tratto la fiction a puntate Suor Jo (2005). (CB dal DizioNoir)
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