Ritiratosi in solitudine in un villaggio di pescatori, il giapponese Takata (Takakura Ken) viene avvertito per telefono dalla figlia Rie (Terajima Shinobu) delle condizioni gravi del figlio maschio Kenichi, malato terminale di tumore. Takata e Kenichi non si parlano più da molti anni, e la malattia non fa che acuire l’abisso insondabile creatosi negli anni fra i due, soprattutto perché il figlio si rifiuta di vedere il padre, arrivato a Tokyo apposta per lui. È davvero tutto perduto fra loro, o lo scontro generazionale più lasciar posto alla comprensione? Forse, l’unico modo per avvicinarsi a Kenichi è seguire il filo di Arianna della sua passione: l’opera cinese. In quanto massimo esperto dell’argomento, Kenichi si è recato spesso in Cina per filmare alcuni attori dell’opera; in particolare, le sue ricerche l’avevano condotto più volte nel villaggio di Liiang, nello Yunnan, per filmare l’interpretazione della più grande opera cinese mai scritta, Mille Miglia Lontano di Guan Yu, da parte dell’attore Li Jiamin (che interpreta se stesso). Sperando di arrivare a conoscere meglio il figlio, Takata decide di recarsi nello Yunnan per filmare al posto suo l’attore che interpreta Mille Miglia Lontano. Una volta recatosi in loco, però, Takata si ritrova a dover affrontare una serie di complicazioni impreviste che ritarderanno il compimento della sua missione, e al contempo gli permetteranno di conoscere meglio il figlio e se stesso, attraverso l’incontro con una cultura diametralmente opposta alla propria e che, forse, non era poi così importante di per sé per Kenichi se non per la possibilità di vivere in solitudine che essa gli forniva. L’incarcerazione dell’attore Li Jiamin, in particolare, e la scoperta dell’esistenza di un suo figlio, nato al di fuori del matrimonio e dunque sequestrato dalla commissione di partito del Villaggio di Pietra che l’ha cresciuto collettivamente senza mai fargli vedere il padre, spingono Takata a recarsi nel villaggio per convincere la commissione a portare il bambino dal padre. Il viaggio alla ricerca di Yang Yang nello sperduto Villaggio di Pietra ben presto si trasforma in un viaggio interiore, in cui il rapporto che si va instaurando fra Takata e Yang Yang diventa proiezione di un possibile recupero del rapporto che l’uomo ha con il figlio, del quale viene a sapere alcuni particolari rilevanti dalle persone che l’avevano conosciuto in Cina. Kenichi non parlava molto e se ne stava sempre per conto suo, dando l’impressione di essere un uomo molto solo. Takata si chiede se Kenichi si recasse spesso in Cina per un’esigenza di isolamento data dalla lingua e dal paesaggio, particolarmente selvaggio e roccioso. O forse, ciò che attirava di più Kenichi erano le maschere dell’opera cinese, che nascondono senza permettere ai sentimenti di trasparire all’esterno, anche se alla fine per ognuno dei personaggi arriverà il momento di mettersi a nudo, per parlare senza maschera.

Questa in breve la trama del nuovo film di Zhang Yimou, Mille Miglia Lontano, che rappresenta decisamente un taglio netto rispetto alle due prove precedenti, i due film–omaggio al wuxiapian hongkonghese Hero e La Foresta dei Pugnali Volanti. Mille Miglia lontano mette in scena una tematica – il rapporto fra padre e figlio – mai affrontata in maniera così semplice e al contempo toccante dal regista, che per farlo ha avuto la brillante ed afficace idea di scegliere di narrare la sua storia da un occhio esterno, quello di uno straniero, e per di più giapponese. Ne viene fuori un film che è allo stesso tempo uno scontro e un incontro fra due culture che rappresentano due modi diversi di vedere le cose, ma che possono fortunatamente incontrarsi nonostante le innegabili divergenze. Così, se da un lato la cesura fra padre e figlio viene sempre colmata attraverso un tramite – la voce di Rie che riferisce di volta in volta gli stati d’animo di Kenichi, o anche il rapporto fugace ma intenso con il piccolo Yang Yang – dall’altro l’accoglienza di una cultura altra come quella cinese riesce nella sua estraneità ad insegnare a Takata il valore dell’amore nonostante l’apparente inutilità del suo viaggio, visto che Kenichi non vedrà mai la registrazione effettuata dal padre. La differenza fra le due culture viene innanzitutto evidenziata dal contrasto cromatico, che vede il Giappone simboleggiato da toni simil–neutri (il grigio–azzurro dei grattacieli sullo sfondo, del mare e del cardigan di Rie, o il nero degli abiti funerari) e la Cina rappresentata attraverso il meraviglioso coloratissimo e scenario dello Yunnan (l’ocra delle rocce, il cremisi degli stendardi, il rosso e il verde degli abiti e delle maschere, la tavola imbandita nel Villaggio di Pietra, l’arancio della tuta di Yang Yang). Ma lo scontro fra le due culture è anche, forse in maniera più elementare, veicolato dall’ossessiva presenza della tecnologia nella vita di Takata (la fotocamera con cui scatta istantanee di Yang Yang da mostrare poi a Li Jiaamin, e il telefonino che lo lega come un debole filo alla vita di Kenichi) che contrasta totalmente con la semplicità di mezzi della Cina rurale, fatta di semplici tavoli grezzi, torce improvvisate all’ultimo momento e involti dove mettere i vestiti. Sia il cromatismo che la tecnologia (come l’assenza di essa) sono simboli di due modi diversi di veicolare se stessi, e di riflesso di due culture diverse: la cinese, fatta di chiassosa festosità e modi diretti ed espliciti di relazionarsi con gli altri, oltre che di un senso di ospitalità e convivialità verso lo straniero che culmina nell’organizzazione dello spettacolo dentro il carcere, con tanto di detenuti riuniti nella sala ricreativa appositamente per fare un piacere al visitatore venuto da lontano; dall’altro, la cultura giapponese, maggiormente incentrata sul silenzio e sulla mancata esternazione dei propri sentimenti. In tal senso, i dialoghi per telefono fra Takata e Rie diventano spia di una latente alienazione dei rapporti umani che forse assurge a simbolo di una schizofrenia culturale, oltreché dell’incomunicabilità fra padre e figlio, che hanno sempre bisogno di un tramite per comunicare, dalla voce di Rie alle risate ignare e innocenti di Yang Yang.

Ma soprattutto, ed è questa la lezione di stile che Zhang Yimou ci regala nel suo ultimo lavoro, il film è una grande prova di relativismo culturale, in cui il regista riesce a vedere (e a farci vedere) il proprio paese con occhi esterni, scegliendo fra l’altro il paese con il quale la Cina ha da tempo rapporti tesissimi, a causa soprattutto dei soprusi perpetrati dal Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale. Pur con i suoi momenti un po’ puerili (l’addio a Yanga Yang; i carcerati che piangono vedendo le foto del bambino) Mille Miglia Lontano è un bell’esempio di cinema popolare nel senso più autentico del termine (che nulla ha a che vedere con le esigenze di botteghino), capace di parlare al cuore sviscerando in maniera semplice ma efficace dei sentimenti nodali dell’esistenza umana, come può essere l’amore fra un padre e un figlio.