Le paure cambiano, anche se alcune restano le stesse. Per esempio, quella di non trovare un editore che pubblichi un mio libro. E’ una paura che ammetto con sincerità, soprattutto da quando ho scoperto che esistono delle scelte editoriali che esulano dalla qualità del testo e che dipendono esclusivamente dalle garanzie di vendita. Poi paura – o meglio, sgomento – dei preconcetti, anche da parte della critica, di chi decide di non leggere un tuo romanzo per colpa di una copertina o di una bandella, di chi ti etichetta “a pelle”, sulla base di un pregiudizio, o si approccia a un tuo libro senza conoscere la tua Storia, l’interezza del tuo lavoro. Paura che in questo proliferare di antologie manchino sempre le voci femminili, che i curatori/scrittori avvantaggino i loro amici e che le autrici siano discriminate e tagliate fuori da una sorta di snobberia maschile, come se sapessero scrivere solo raccontini erotici o intimisti. Paura di non scrivere un buon libro: questa è la prima paura della lista. La attenuo mettendo il naso fuori, occupandomi di altro, leggendo o andando al cinema, lasciando per un po’ il foglio in bianco.

Cibo… Mangio molte schifezze: patatine, pizze, gelati. Quando scrivo fumo talmente tanto che mi passa l’appetito. Sono vegetariana e odio il sushi. Mi piace bere buon vino. Mai fatto una dieta.

Tre caffè al giorno, meglio se “estivi”, col latte light montato. Adoro chi cucina per me, soprattutto sformati di verdura o patate arrosto. Mi incanta chi mangia con entusiasmo, chi vive il cibo con cannibalismo. Invidio questo godimento vorace, primitivo.

 

A volte non riconosco il mio corpo, come se non mi appartenesse. Di giorno mi infagotto con tute, scarpe da ginnastica, berretti. Di sera: pantaloni o gonne, tacchi medioalti, maglie attillate. Il diurno e il notturno sono due facce di me. Una struccata, e l’altra col rossetto scuro, che non se ne va nemmeno quando mangio. Preferisco le docce veloci alle vasche glamour: confesso di non essere mai scomparsa dentro le bollicine di un bagnoschiuma con un calice di frizzantino in mano. D’estate, a differenza di molti, mi piace portarmi la sabbia nel letto, sotto le piante dei piedi. D’inverno, indosso calzini colorati da montagna. Ho una collezione di guanti tagliati all’altezza delle dita; non disdegno le calze autoreggenti, in genere grosse e nere. Non seguo mode, non acquisto quasi mai abiti firmati: spulcio spesso nei mercatini. Rispetto al mio fisico ho i problemi di ogni donna che a quarant’anni non ama fare sport, non frequenta palestre e non sa dire di no a un bignè con la panna. Col tempo mi sono affezionata a forme più morbide, mentre da giovane ero magra e spigolosa. Diciamo che il mio rapporto col corpo è altalenante. Ma più che da un punto estetico mi arrabbio solo se mi ritrovo col sistema immunitario indebolito, dallo stress o da un’influenza.

Bologna è la mia città da sempre, ci sono nata e ci abito, anche se a vent’anni ho vissuto parecchio tempo a Roma. Ho con Bologna un rapporto ambivalente: a volte mi sta stretta, altre mi protegge. Se non fossi pigra e conoscessi bene le lingue, credo che vivrei a Parigi o a Barcellona. Non sono centraiola e amo le periferie. Ho i miei rituali: lo stesso bar, lo stesso lavasecco, la stessa tabaccheria, la stessa edicola, lo stesso benzinaio. Mi perdo ogni volta che c’è il giorno di chiusura. Un amico mi ha definita più abitudinaria di un serial killer. Generalmente mi muovo in macchina, ma a volte anche in bici: arrivo fino al parco di Croce Coperta, mi siedo su una panchina a leggere i giornali e a prendere il sole. Non amo viaggiare. Ogni hotel ha ormai perso di fascino e soffro d’insonnia solo fuori casa. Quando devo spostarmi, le prime cose che metto in valigia sono medicine di ogni tipo. Sì, sono stanziale, ipocondriaca e paranoica. Però dipende anche dalla compagnia, che può aiutarmi a contenere le ansie; e ci sono città dove mi piacerebbe, se fossi ricca, comperare una casa. Una di queste è Palermo.

Amo molto le città sull’acqua. Da ragazzina non avrei più voluto lasciare Leningrado (all’epoca si chiamava ancora così). E spero prima o poi di vedere Buenos Aires e l’Islanda.

 

La scrittura l’affronto in modo contraddittorio. Da un lato, la vivo come una missione, dall’altro come qualcosa che faccio solo quando mi va, quando non avverto forzature. Ho interi quaderni di appunti, che utilizzo per la prima stesura di un libro. Vivo fuori dal mondo, quando scrivo, per almeno tre mesi. Stacco la spina da tutto. E passo dall’euforia della prima gettata all’autocritica feroce della rilettura. Non ho mezze misure e intervallo periodi di scrittura intensa, esclusiva, a momenti di svago totale, direi quasi di ozio. Inizio sempre con carta e penna, poi passo al computer e alla stampante. E’ una sofferenza adrenalinica. Una dipendenza ormai consolidata. Come un vizio pausato da diete disintossicanti.

La prima pagina è uno scoglio durissimo. Ma so che appena preso il ritmo divento instancabile. Scrivere mi fa male alla salute, ma senza non saprei vivere.

Non mi do scadenze sui romanzi; solo sui racconti, nel caso ci sia un termine di consegna. Sono molto veloce, anche se passo parecchio tempo a limare e correggere. La mia scrittura è fatta più di sottrazioni che di aggiunte. Posso scrivere un libro di duecento e più pagine che alla fine diventano centocinquanta. Lo stile che ho scelto, su cui mi intestardisco da anni, e che mi aderisce, è fatto di sintesi, concisione e musicalità. Direi che ho un solo traguardo: essere semplice. Credo sia la meta più difficile da raggiungere. In questo, mi aiuta spesso la rilettura di Robert Walser.

In genere, scrivo di pomeriggio o di sera. La mattina la dedico alle commissioni quotidiane. Non scrivo mai con musica di sottofondo ma nel silenzio più assoluto, proprio per ascoltare la pagina, per seguirla come uno spartito e rispettarne le regole (o, a volte, infrangerle).

Appena mi metto al lavoro devo avere sul tavolo un posacenere e una bottiglietta di Ferrarelle.

Fino a Velocemente da nessuna parte ho avuto due punti di riferimento: Paola Borgonovo (editor di Sironi) e Valentina Desalvo (giornalista di Repubblica); sono state le uniche a leggere i miei manoscritti e a darmi utili consigli. Ho buoni rapporti con alcuni scrittori, in genere noiristi, forse perché meno presuntosi e meno autoreferenziali. Evito i megalomani, quelli che ti chiedono subito quanto hai venduto, quelli che ti incensano o ti denigrano senza averti mai letto. La società letteraria mi riempie di sospetto, anche se a volte capitano felici sorprese. Cerco di non partire prevenuta ma non sopporto gli scrittori, gli intellettuali o gli artisti che parlano solo di se stessi e dei loro successi. Mi spiace quando ricevo diffidenza dalle donne che fanno il mio stesso lavoro. E mi arrabbio se noto punte di acido maschilismo in alcuni colleghi. Detesto le cupolette mafiose, i circoli degli amichetti di merenda, i favoritismi e gli intrallazzi. Mi schiero sempre dalla parte di chi suda, di chi ha pazienza e vive la scrittura come un’inevitabile necessità che sussisterebbe anche fuori dal mercato, dalla “fama” o dall’insuccesso. Tutto ciò che ammicca, che è “televisivo”, furbesco mi trova sfottente, ma allo stesso modo non credo nel purismo. Penso che scrivere ci renda fragili, esposti, messi a nudo. Che se scrivi un libro per te, forse toccherai qualcun altro.

 

Se devo ringraziare qualcuno, a parte i gatti (silenziosi testimoni del mio lavoro) o il pettirosso che frequenta il mio giardino o gli alberi che vedo dalla finestra (il liquidambar, la betulla, il nespolo), mi vengono in mente persone lontane, anche geograficamente, o persone che non ci sono più, come mio nonno che mi insegnò da bambina a suonare il pianoforte e che mi portava al cinema a vedere i film western. 

E poi il poeta Roberto Roversi, il primo a credere in me e a pubblicare i miei racconti. Giorgio Pozzi di Fernandel, che ha pubblicato i miei primi libri. Gabriele Salvatores che col suo film mi ha permesso di avere più lettori.

Col passato ho un rapporto stretto, e ci sono presenze invisibili che sento sempre al mio fianco. N

on amo pianificare il futuro e mi sforzo di vivere il tempo reale. Sono una che vive di ricordi e che cerca di farsene di nuovi.

 

La malattia mi fa molta più paura della morte. Ma è sempre rivolta alle persone che amo e quasi mai a me stessa. Non ho un attaccamento feroce nei confronti della vita. Forse è questo che mi aiuta a vivere meglio. Ma non sopporto di vedere soffrire chi amo. La morte mi fa schifo, diceva Bukowski, io penso invece che in certi casi sia una liberazione.

Non è facile vivere solo di scrittura. Per anni ho lavorato come doppiatrice per mantenermi. Ora continuo a scrivere testi per le canzoni di altri, oppure articoli. La musica è stata fondamentale, per me. E sto portando in giro un reading di letture e canzoni, con due amiche musiciste. Sto anche cercando di far ristampare il mio cd Nata Mai uscito per la BMG nel ’96. Collaborare con i musicisti è una vacanza, oltre che un piacere. Ed è in questo campo che ho visto realizzarsi un vero gioco di squadra. Scrivo da sempre, ma le mani le ho messe prima su un piano e poi sulla tastiera di una macchina per scrivere. In questo senso, c’è una persona che mi ha dato molto, il mio ex storico, David, ingegnere del suono per vari artisti, che per molti anni mi ha affidato il suo studio di registrazione per creare i miei primi demo. Poi i musicisti, e in particolare Puddu (ora chitarrista di Neffa). Gli organizzatori del Premio Recanati (vinto nel ’95). E i Jethro Tull di cui feci band di supporto a Napoli nel ’98 davanti a migliaia di persone: un’esperienza da infarto, di quelle da raccontare un giorno ai nipoti.

 

Certo, sì, ci sono persone che fanno dei gran danni e che andrebbero “eliminate”. Ma ho imparato che la rabbia serve a poco, che si può combattere con le parole, quando sono atti di coraggio, di denuncia, di verità.

 

Ogni volta che il dolore prende il sopravvento mi sento invisibile, o forse desidero esserlo. Mi sento bene con le persone che scelgo più per la loro sensibilità che per altre cose. Mi circondo di persone che non ostentano la loro forza e ammettono le loro debolezze. Persone che sanno esserci quando occorre esserci. Ma non ho mai perso l’entusiasmo per le affinità improvvise, per i colpi di fulmine, per le persone nuove. Sono solo diventata più prudente.

Le cose che mi fanno uscire dai gangheri sono la superficialità, il grande o piccolo abuso di potere, la vanagloria, l’ottusità, le pose radical chic, il rampantismo, lo shopping selvaggio, chi sa solo parlare di yoga, le donne che si sentono fallite se a trenta o quarant’anni non hanno un marito e dei figli, le donne in “corriera” (come dice Lella Costa), gli uomini che non sanno crescere, assumersi responsabilità, che reagiscono con violenza a un abbandono, che vanno a letto con quelle che non gli fanno ombra.

 

I miei passatempi sono andare al cinema, a teatro, leggere, ascoltare musica in macchina, cenare in trattorie fuori città, parlare di progetti con le persone con cui lavoro, giocare con Tessa (la mia gatta), rispondere alle e.mail di Luca Di Fulvio o di altri amici, comprare anticaglie, stare in silenzio con le persone giuste, dare qualche tiro di canna se me la passano, stare ore dentro una libreria, farmi consigliare libri poco conosciuti, chiedere a mia madre se mi attacca un bottone che si è scucito, mangiare castagne davanti al fuoco nella casa in campagna di un amico, giocare a carte, andare a un concerto, fare le grandi pulizie (in tutti i sensi), fumare una sigaretta dopo aver fatto del buon sesso.

A proposito di sesso.

L’erotismo in letteratura mi ha davvero stufato. Mi scopro ad amare libri dove non ce n’è, e a trovarli persino più sensuali. Nella vita, ho sempre pensato che non è una prerogativa maschile scindere il sesso dai sentimenti. Se ci si guarda negli occhi, se si ha qualcosa da dire, se c’è una corrente non solamente chimica, il sesso può essere più tenero, anche più fantasioso. Ma mi sono capitati incontri dove lo scambio era nudo e crudo, non sovrastrutturato: un puro e rispettoso “accordo dei sensi”. Forse l’amicizia amorosa è la relazione che prediligo. E non ho mai sentito la solitudine come una nemica…

Grazia Verasani, 1964. Italia. Artista con vari interessi, cantante, approda al noir dopo un iter letterario maturato grazie anche alla casa editrice Fernandel, che le pubblica due romanzi (Fuck me, mon amour e L’amore è un bar sempre aperto) e un’antologia di racconti (Tracce del tuo passaggio).

La sua prima opera gialla è Quo vadis, baby?, un romanzo che si colloca nella zona di confine tra noir e littérature blanche, senza profusione di cadaveri, psicopatici, sparatorie e/o cervellotiche deduzioni. Quo vadis, baby? è stato portato sullo schermo da Gabriele Salvatores nel 2005. La protagonista Giorgia Cantini torna in un nero a matrice più investigativa: Velocemente da nessuna parte (2006). Verasani è attenta alla psicologia dei personaggi, al quotidiano, al sociale. Cura in particolare gli aspetti legati alla generazione a cui appartiene, quella dei nati negli anni 60. Ha pubblicato anche una piece teatrale rappresentata a Roma, in Sicilia e all’estero: From Medea. (FN dal DizioNoir)