È un gran bell’esordio questo Apocalisse da camera di Andrea Piva, già sceneggiatore de Lacapagira e Mio cognato, diretti dal fratello Alessandro, e autore di uno dei racconti più riusciti dell’importante antologia La qualità dell’aria, Un muro di televisori, dove la tragedia delle Torri gemelle veniva vissuta, rivissuta e moltiplicata attraverso gli schermi dei monitor esposti in un supermercato assurto a mondo. E di un’altra apocalisse parla il romanzo di Piva, quella di un ambiente sociale borghese popolato da fantasmi, che appaiono sovente ripiegati su stessi, assenti, staccati dal tempo che continua il suo corso intorno a loro. In questo territorio di perdenti, le uniche testimonianze possibili di vitalità sono rappresentate dalle prestazioni del corpo. A esso appartengono gli ultimi, inestinguibili sussulti di energia, una reattività che ha origini profonde e che, se non arresta le derive della mente, almeno rende possibile qualche avvicinamento, qualche tensione e la percezione di sé nell’urgenza imprescindibile della pulsione e del patimento.
Scritto in terza persona, Apocalisse da camera è un romanzo dolceamaro, ricco di trovate divertenti, che poggia su una costruzione letteraria sapiente e intrigante, colta e diretta, su idee mai banali, con un impasto narrativo capace di trasmettere al lettore un’urgenza vitale e una notevole energia. E questo senza fare ricorso alla "baresità", cioè al dialettismo o a un certo realismo cronachistico.
Vi si narra un giorno della vita di Ugo Cenci, cultore della materia senza borsa presso la cattedra di Filosofia del diritto della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari. Poco più che trentenne, figlio unico, il giovane ha un tenore di vita più che buono – appartamentino, macchine e la possibilità di togliersi ogni sfizio – grazie ai continui emolumenti dei suoi genitori – il padre è un ex direttore di banca, la madre è una casalinga apprensiva con studi filosofici alle spalle – che sperano per lui un brillante futuro accademico. Ma Ugo è inquieto e insoddisfatto, fa largo uso di alcol e cocaina e, approfittando della sua posizione di commissario d’esame, intrattiene rapporti sessuali con questa o quella studentessa in cambio di una agevole promozione.
Un giorno, mentre sta palpeggiando una sua nuova effimera fiamma, il professor Frappelle, titolare della cattedra, lo cerca al telefono per chiedergli un importante incontro a quattr’occhi, dove lo avvisa del fatto che gli è giunta all’orecchio la notizia del suo mercato sessuale ("Be’, dottor Cenci, anzi: Ugo, parliamoci chiaramente. Si dice che tu mercanteggi i voti in cambio di favori sessuali"). Sembrerebbe l’inizio di un romanzo di denuncia sulle miserie dell’ateneo barese. Invece, per fortuna, la narrazione prende un’altra piega (del resto per avere notizie di esami venduti e comprati nell’Università di Bari è sufficiente scorrere le pagine dei quotidiani). Piva, infatti, mira a descrivere senza alcuna pietas l’autodistruzione di un cretino come tanti, che si muove lungo le direttrici di un’etica distorta; un personaggio spesso antipatico, che non ha imbarazzi moralistici o sensi di colpa, tanto meno consapevolezza; che si illude di poter vivere la sua vita inimitabile e la sua sessualità senza alcun bisogno di un confronto col mondo. Ma Ugo Cenci con tutta l’antipatia che trasmette, è però terribilmente vero, e il disagio che provoca ci aiuta a cogliere in tutte le sfumature la verità di un tipo umano che, soprattutto in Italia, conosciamo bene.
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