Il fatto è che quando al popolo chiedi: “Allora, vuoi Cristo o Barabba?”, di solito ti fa fuori Cristo. E la storia si ripete all’infinito, come quando il Felice, di nome ma non di fatto, poverocristo, capitò nelle mani di quelle squadracce fasciste.

Non era antifascista per la pelle, anzi. Era uno che, vista l’aria che tirava da quelle parti in montagna, non diversa dal resto dello Stivale italiano, preferiva non avere grane. Se ne stava su entrambe le sponde e, diceva, se le sponde fossero state tre, se ne sarebbe stato volentieri su tutte e tre.

Felice era l’unico sopravvissuto di una famiglia sterminata dall’epidemia di spagnola e, povero in canna e senza parenti stretti, aveva avuto la buona ventura di capitare sotto le ali protettive del medico condotto del paese, un benemerito che gli aveva dato libero accesso alla propria fornitissima biblioteca. Così, colto e arguto, con una verve da far invidia ai più capaci giornalisti, Felice era entrato nelle grazie anche dell’ordine religioso che mandava avanti la tipografia e il periodico cattolico, lassù, ai piedi delle Alpi.

Il fatto di non prendere mai una posizione, non lo esentò dall’adesione alla campagna antiblasfema, che si riprometteva di lavare le bocche sporche dei bestemmiatori più incalliti, dando esempio di virtù e di buona educazione. Altrettanto vero è che Felice non si beveva proprio tutto quello che la propaganda fascista faceva circolare. Ogni qualvolta arrivava via telegrafo un comunicato dell’agenzia Stefani, l’organismo con cui il governo diffondeva le informazioni, non mancava di leggerlo ad alta voce con tono solenne, concludendo la lettura con un sarcastico “per l’esercito d’Italia, eja, eja… alalà”.

Quella mattina di ottobre tirava un’aria che il diavolo la mandava e Felice entrò in tipografia stretto nel suo consunto paletot.

“Ne hanno accoppato uno”, esordì il direttore senza rivolgergli neppure un cenno di saluto.

“Uno di che?” replicò Felice, togliendosi il cappello floscio.

“Un fascista, il figlio più giovane del Bonetti, quello ricco della Rumianca. Gli hanno aperto il torace con un coltello”.

“E che facciamo, lo scriviamo o facciamo finta di niente come per il povero Bepi?”, chiese, guardandosi bene dall’incontrare lo sguardo del direttore, mentre si accingeva a iniziare le sue otto ore di linotype al calore unto del piombo.

Il povero Bepi era un contrabbandiere, uno spallone come si diceva da quelle parti. Morto, probabilmente ammazzato da un canarino, un finanziere che, dopo averlo acciuffato sui monti mentre ritornava dalla Svizzera con uno zaino carico di ogni bendidio, lo aveva semplicemente scaraventato nel burrone. Naturalmente dopo aver recuperato l’abbondante carico di contrabbando. Ma questo non lo si poteva raccontare. La nuova legge sulla stampa obbligava a restrizioni severe. O con noi o contro di noi. Meglio con noi, altrimenti il giornale chiude.

“Questa volta è diverso – disse il direttore. – Questa volta a quello sciagurato che l’ha ammazzato toccherà una punizione esemplare. Dettagli, mi hanno detto. Curate i dettagli”.

E i dettagli non mancarono. Il giornale dovette riportare nei minimi particolari il fattaccio.

“Un’altra vittima della ferocia comunista”, intitolò il periodico. E poi attaccò con la storia del fascista “Rodolfo Bonetti, vilmente colpito a tradimento in un’imboscata tesa da un losco e spregevole elemento della teppa rossa del luogo. Nel vigliacchissimo agguato il povero Bonetti cadeva colpito al cuore da una tremenda coltellata vibrata fulmineamente da un selvaggio sicario. L’inaudita ferocia del fatto, improntata a così bassa vigliaccheria, ha suscitato lo sdegno universale in tutta la plaga, ove il Bonetti con tutto il suo entusiasmo giovanile e con fede incrollabile, da tempo combatteva generosamente la sua battaglia per il trionfo dell’idea fascista. Nel nome del loro primo martire i fascisti della zona hanno raccolto la sfida lanciata dalla teppa comunista e hanno giurato che la vendetta sarà adeguata alla immensità del misfatto”.

 

Erano cinque in tutto. Entrarono in tipografia il giorno seguente, puntuali, alle nove del mattino.

“Conosce un tale Felice Castiglioni?” disse quello che sembrava il capo, coi calzoni alla zuava.

“Sono io”, rispose il linotipista.

All’istante gli altri quattro gli si scaraventarono addosso, dando inizio a una minuziosa perquisizione. Non risposero alle sue domande e gli urlarono:

“Tu vieni con noi alla casa del fascio.”

“A far che?”

“O ti facciamo trangugiare l’olio. Oppure ti spacchiamo la testa”. Erano minacce cui non era proprio il caso di reagire. E Felice, che avrebbe fatto volentieri a meno di quella rogna, scelse come minore dei mali il silenzio e l’obbedienza.

Alla casa del fascio lo interrogarono su una questione accaduta la settimana precedente. Calzoni alla zuava lo portò in una camera piccola, senza finestre, accanto alla sala del direttorio dove troneggiava il ritratto del Duce. Fece sedere Felice su una seggiola cigolante, non tanto per cortesia, quanto piuttosto per poterlo dominare dall’alto del suo metro e sessanta.

“Qualche giorno fa hai denunciato un’aggressione” gli disse con i piedi ben piantati a terra.

“Sì. Mi hanno aggredito. In tre. Sotto i portici del teatro. Era buio. Mi hanno bendato”.

“E quindi?”

“Mi hanno portato proprio qui, al fascio”.

“Impossibile. E poi eri bendato…”.

“No, no. Ve l’ho già detto. E’ tutto vero. Quando se ne sono andati mi sono levato la benda. Puzzavo come una carogna, là dove mi avevano sbattuto a terra, di fronte alla casa. Avete la deposizione che ho fatto al segretario politico”.

“Ripeti allora quanto hai affermato”

“Mi fecero ingoiare un bicchiere di olio di ricino tolto da una damigiana che stava qui, credo”. E spostò lo sguardo nella direzione di un contenitore panciuto, in un angolo della sala. “Mi tennero disteso sul tavolo finché… l’olio non fece il suo effetto. Conosce le conseguenze?”

“Qui le domande le faccio io!”, sbraitò Calzoni alla zuava, giocherellando ostentatamente col manganello. E continuò: “Che schifo. Hai riconosciuto qualcuno?”

“No. Una qualche idea me la sono fatta. Ma, come ho detto, ero bendato”.

“Allora è per questo che l’hai ammazzato”, urlò Calzoni alla zuava.

“Chi?”

“Il Bonetti. E’ lui che dici di aver riconosciuto, vero?”

“I tipi come te bisogna fermarli, mascalzoni. I morti di fame sono sempre pericolosi”, aggiunse il secondo.

“Capaci di tutto” disse il terzo.

“Di ammazzare” disse il quarto

“Di rubare…”

“Di diventare comunisti!”

“Oltretutto il fatto ha ringalluzzito i sovversivi. Sono apparse nuove frasi di minaccia sui muri e si sono addirittura issate bandiere rosse”.

“Al di fuori del fascismo non c’è salvazione. I piccoli rigagnoli che si staccano dal grande fiume sono destinati a morire nelle pozzanghere”. E con questa frase Calzoni alla zuava mise fine all’interrogatorio.

“Cristo”, si lasciò scappare Felice. Alla faccia della crociata di sociale redenzione della lega antiblasfema.

 

Il fatto è che quando al popolo chiedi: “Allora, vuoi Cristo o Barabba?”, di solito ti fa fuori Cristo. E la parte del poverocristo sarebbe toccata certamente al Felice se il dottor Ravelli, il medico condotto, non ne fosse stato il padre putativo. Quando seppe del fermo andò su tutte le furie. Sfoderò tutta la sua eloquenza con il segretario politico, minacciò di rimettere la tessera e astutamente chiese l’intervento della levatrice del paese, donna dotata di saggezza, di un notevole prestigio e, cosa più convincente, di carni sode che il segretario conosceva bene… E, alla fine, fece liberare lo sciagurato, assicurando che:

“Felice non farebbe del male a nessuno. E poi quella sera era a casa mia. Fino a mezzanotte se n’è restato chiuso in biblioteca”.

 

Passò un anno e una certa sera Felice il linotipista guardò compiaciuto la prima pagina del giornale. Si portò una mano alla fronte e sollevò la visiera come era solito fare al termine della giornata di lavoro. Si rimboccò le mezzemaniche nere e le fece scivolare oltre i polsi della camicia. Era solo in quella stanza fumosa.

Nella cortina plumbea della tipografia, aspettando l’arrivo del direttore, rileggeva la notizia di prima pagina, quella del processo a carico di un tale Rolando Giani, riconosciuto come l’assassino del giovane fascista Bonetti:

“Il comunista è stato ridotto all’impotenza senza che riuscisse a far nuove vittime come era nel suo programma. In base al verdetto dei giurati il presidente ha pronunciato condanna a trent’anni di reclusione e dieci anni di vigilanza speciale. Una sentenza che il popolo ha accolto con applausi e grida di giubilo per giustizia fatta. Ora l’assassino nella lunga e spaventosa solitudine della cella sentirà il rimorso del barbaro delitto premeditato per folle odio contro la Patria”.

Felice si infilò il pastrano ed estrasse dalla tasca destra una catenella alla quale era attaccato un oggetto d’argento, un grosso orologio da tasca di foggia antiquata. Le sei, era ora di tornare a casa. Un sorriso equivoco gli tagliò in due il viso. Nessuno aveva capito niente. Né perché gli avessero fatto bere l’olio, né chi avesse ucciso il giovane fascista. Si trattò di una banale questione di gelosia tra un impettito fidanzato ufficiale, il Bonetti, e un corsaro senza principi, il Felice. E tanto meglio se la storia del periodo reclamava un colpevole comunista. La parte del poverocristo toccò questa volta a qualcun altro…

Il fatto è che quando al popolo chiedi: “Allora, vuoi Cristo o Barabba?”, ormai si sa, ti fa fuori il Cristo.