Il valore del passato e della memoria, le dinamiche del potere, i complessi e contorti meccanismi della giustizia sono senza dubbio i temi essenziali della narrativa di Gaetano Savatteri, inviato del TG5, anche autore di saggi sulla criminalità organizzata e sulle storie “reali” della Sicilia di ieri e di oggi, di cui il più recente, nonché più bello, è I siciliani, edito nel 2005 da Laterza.
Del resto, come egli stesso ha più volte sottolineato, scrivere di “cose” e collocare la propria ricerca letteraria tutta all’interno del triangolo storico, culturale e antropologico, delimitato dalla Regalpietra di Sciascia, dalla Girgenti di Pirandello e dalla Vigata di Camilleri, costituiscono un vero e proprio imperativo per un giornalista prestato alla letteratura – e quindi, in quanto tale, con un forte radicamento nella cronaca –, nato a Milano nel 1964 da genitori di Racalmuto, dove ha trascorso la giovinezza e fondato nel 1980 il periodico Malgrado Tutto, cui fin dal primo numero fu ben lieto di collaborare – accanto ad altre grandi firme della letteratura siciliana, come Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo – proprio l’autore del Giorno della civetta (e ancora oggi le pagine della rivista ospitano contributi di intellettuali legati, più o meno direttamente, alla figura di Sciascia, come Bonaviri, Camilleri, Collura). “Malgré tout: un francesismo – ebbe a scrivere una volta il maestro di Racalmuto – direbbero i puristi (se ancora ce ne sono); ma un francesismo, io direi, non di guscio ma di sostanza; un francesismo che contiene una visione delle cose illuministica, diderottiana. O si potrebbe dire che contiene un modo di affrontare la realtà col pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà”.
E tra pessimismo e ottimismo di fronte a quella irripetibile ambiguità psicologica e morale, che, secondo Bufalino, costituisce l’essenza prima del siciliano, oscilla il Savatteri romananziere, che dopo l’esordio La congiura dei loquaci, racconto-pamphlet di inchiesta, scritto alla Sciascia, e La ferita di Vishinskij del 2003, con Gli uomini che non si voltano, uscito il 9 novembre scorso sempre per Sellerio, ci regala un gran bel romanzo, forse il suo più sciasciano. Un romanzo sulla natura ineluttabile della politica, sulla sua forza inarrestabile, capace di travolgere tutto e tutti (“la politica è come un fiume: o stai dentro o stai fuori. Se stai dentro allora nuoti, rallenti, vai sotto il pelo dell’acqua, riemergi, ma senti che il fiume è più forte di te. Senti che dietro la prossima ansa o dopo l’ultima rapida potrai riemergere, trionfare, primeggiare”, dice uno dei personaggi, il potente ras Casesa).
Gli uomini che non si voltano, che montalianamente (da un celebre verso degli Ossi di seppia deriva il titolo del romanzo di Savatteri) con il nulla alle proprie spalle, accettano questa realtà, forse sperando in un miracolo, sono tre amici, un poliziotto, un giornalista e un onorevole. O, per meglio dire, tre uomini che sono stati amici nel tempo della giovinezza, avendo vissuto insieme a Palermo, al liceo e all’università, gli anni del Movimento della Pantera. Placido Polizzi, giovane poliziotto siciliano, nato nel 1968, arrestato, processato e condannato in primo grado in seguito ad una intercettazione in cui due “mafiosazzi di borgata” parlano di lui come “l’amico nostro della questura”. Silvestre Majorca, ex giornalista d’assalto, ora asservito ai potenti (“Portafoglio a destra, cuore a sinistra, mente libera. È la stampa, bellezza”), collaboratore di Aurelio Tripodo. Questi, onorevole, figlio di un potente boss democristiano, che lo ha costretto alla carriera politica, due figli piccoli, sposato con Gialuce, ex fidanzata di Placido, è innamorato della francese Florance Galli. Cosa questa che gli impedisce di essere un uomo di potere, “perché gli uomini di potere non si innamorano, fottono, fanno figli, si sposano. Ma non si innamorano, perché il potere reclama un amore esclusivo, devastante ed esigente”. La vita di Aurelio, già "tragicamente" oscillante tra le sue scelte individuali e la prescrizione paterna, viene turbata da una serie di lettere minatorie, su cui Placido, dietro invito di Silvestre, è chiamato a indagare.
L’incontro dei tre dopo tanti anni riporta nella loro mente ricordi comuni, delusioni reciproche, strascichi di amori giovanili. Ma soprattutto il convincimento di essere pedine nelle mani di un potere invincibile e ineluttabile come il Fato, personificato nel romanzo dalle figure dei due potenti manovratori Casesa e Vella (come l’abate falsificatore del Consiglio d’Egitto di Sciascia), pronti a dispensare privilegi, pagati con la sudditanza: “a giro, a giro – dice Vella – tutti siamo sudditi e privilegiati, privilegiati ma sudditi. Per questo da noi in Sicilia non si fanno rivoluzioni. Non se ne sono mai fatte. Ogni tanto qualcuno si incazza, butta voci, si fa pure ammazzare. Ma la rivoluzione, che fa scendere tutti per strada, con il sangue agli occhi e lo schiribicchio di tagliare teste, non si farà mai qui da noi”.
Questo di Savatteri è, nonostante le pagine sentimentale e la partitura noir, è soppratutto un romanzo tragico, come sottolineato, un po’ didascalicamente, dallo stesso autore, introducendo nel palinsesto narrativo il fil rouge dell’Antigone di Sofocle, studiata dalla figlia di Placido, studentessa liceale, e messa in scena in chiave antimafia nei primi anni Novanta da Aurelio Tripodo. Scelta non casuale, perché l’opera sofoclea è la tragedia del potere, cui, “per chi del potere ha cura, non si può trasgredire”. È un romanzo tragico perché racconta, nel dipanarsi dei rapporti tra i personaggi, le dinamiche di un destino inarrestabile di squarci e lacerazioni, impossibili da lenire, rimarginare e ricucire. E come una tragedia si fonda su un polarismo strutturale che dinamizza e fa interagire gli opposti, li fluidifica senza mai sintetizzarli.
Tuttavia, questa raccontata dal giornalista-scrittore siciliano è una tragedia senza catarsi. È una tragedia che non conduce alla liberazione, ma solo alla possibilità di dire il tragico, grazie alla grande letteratura, che non può cambiare il mondo, ma resta sempre – come ebbe a sottolineare Sciascia – la forma più alta e assoluta che la verità possa assumere, capace com’è di anticipare, preconizzare e somministrare verità palesi e/o dissimulate.
Anche se Savatteri nel post scriptum del libro ci invita un po' teatralmente a diffidare di chi scrive romanzi. Ma non è il caso di credergli.
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