Seconda Guerra Mondiale. Il 23 febbraio 1945, Joe Rosenthal fotografò sei marines, che a Iwo Jima, sperduta isoletta vulcanica, sacra per i giapponesi (e di grande importanza strategica), innalzarono la bandiera americana, l’Old Glory, sul Monte Suribachi. Questa istantanea fu poi riprodotta in milioni di esemplari e trasformata nel monumento bronzeo del cimitero di Arlington, divenendo il simbolo del coraggio, dell’amor patrio e del cuore dei soldati americani in guerra, tanto che ci fu chi disse che quello scatto aveva avuto un ruolo determinante nella vittoria contro il Giappone. Dei sei militari, tre morirono nei giorni successivi, gli altri, Ira Hayes, nativo americano, René Gagnon e John “Doc” Bradley, loro malgrado, divennero eroi nazionali. I tre soldatini furono, infatti, rimpatriati e, dopo essere stati ricevuti dal presidente Truman, furono costretti dalle autorità politiche e militari a un vero e proprio tour promozionale per raccogliere fondi per la guerra, prestandosi a esibizioni umilianti, come quella di ripetere l’azione dell’alzabandiera su una collina di cartapesta al centro di uno stadio.
Eppure quella foto era un clamoroso falso. Innanzitutto perché la battaglia proseguì durissima per altri ventisei giorni dopo che la bandiera fu issata. Inoltre, questa fu piantata dai soldati, lassù, visibilissima da tutti, nemici compresi, tra gli applausi generali e le sirene delle navi ormeggiate. Ma il capitano della compagnia, che aveva versato sangue per conquistare quella posizione, volendo tenerla tutta per sé, come trofeo personale, la fece sostituire con una più grande. Fu così innalzata una nuova Old Glory, col fotografo a riprendere nuovamente l’evento, anche perché l’istantanea precedente era meno emblematica, con le pose dei soldati, nel frattempo tutti morti, meno plastiche.
Questa storia, raccontata in un libro da James Bradley, figlio di uno tre "eroi", l’infermiere "Doc’ è al centro del nuovo lavoro di Clint Eastwood, Flags of Our Fathers, prodotto da Steven Spielberg, prima parte di un dittico che prevede un secondo film in lingua giapponese, dal titolo Lettere da Iwo Jima, sviluppato parallelamente, che mostrerà la cruenta battaglia di Iwo Jima (21.000 giapponesi e 6.800 americani morti in 35 giorni di scontri) dall’ottica dello schieramento opposto. Siamo però ben lontani dall’epopea militarista alla Iwo Jima Deserto di Fuoco - Marines all'assalto, film del 1949 con un roccioso John Wayne, dal momento che lo sguardo del grande Clint mira ad affrontare con piglio tutto morale quell’intreccio di verità, menzogna, propaganda politica e senso di colpa, che travolge i tre soldati e, più in generale, l’intera nazione. Infatti, anche se le scene della battaglia, girate con lo stesso stile iperrealista di Salvate il soldato Ryan – anche se qui più che i corpi, sono le armi, i cannoni, i mitra, o i blindati, colpiti dai mortai, a dominare la scena – costituiscono un buon terzo del film, al regista interessa soprattutto mostrare il ritorno a casa dei protagonisti della fotografia, la loro tournée in un paese che si riempie all’improvviso d’orgoglio patriottico, che si impegna sul piano economico per sostenere lo sforzo bellico e che solo momentaneamente mette da parte quel razzismo, che cova nella profondità delle sue viscere. E infatti, Eastwood racconta come i tre vengano ben presto dimenticati, come il bisogno di glorificare ed eroicizzare sia effimero e privo di coerenza, evidenziando al tempo stesso come solo la morte può vincere la labilità della memoria collettiva e assegnare quello status di eroe, che permette di raggiungere l’immortalità.
Purtroppo, grava sul film, girato con la consueta straordinaria maestria, una sceneggiatura, pur firmata da due autori come Paul Haggis e William Broyles Jr, particolarmente prolissa e caratterizzata da continui andirivieni temporali, che impediscono il raggiungimento del climax emotivo. Il fatto di conoscere fin dall’inizio la "bugia" della fotografia e le sorti di questo o quel soldato, impedisce allo spettatore di appassionarsi alla vicenda narrata e di stabilire con essa un rapporto simpatetico. Inoltre, soprattutto nel finale, si indugia troppo su quegli aspetti lirico-sentimentali, tanto cari al produttore Spielberg, di cui viene ripresa anche l’ipercorrettezza politica: nemmeno una imprecazione esce dalla bocca dei marines, anche quando il nemico gli lancia contro una scarica di lanciafiamme.
Peccato. Resta comunque, un film nobile e necessario, splendidamente interpretato da attori poco noti, e proprio per questo credibili, in particolare Ryan Philippe (“Doc”) e Adam Beach, nel ruolo del nativo americano Ira Hayes, alla cui tragica vicenda Johnny Cash dedicò una splendida ballata. Però, già mentre scorrono i titoli di coda, è forte la sensazione del capolavoro mancato.
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