Film costruito a tavolino strizzando l'occhio al cinema del recente passato (lo sceneggiatore Leigh Whannell è anche uno dei due attori principali chiusi nella stanza ed è il primo che si vede sulla scena...), Saw è figliastro del medesimo immaginario de I soliti sospetti. Soltanto con minor talento e un'inventiva posticcia, funestata da un senso dell'umorismo adolescenziale se non - peggio ancora - esageratamente goliardico. Tra situazioni scarsamente credibili e un'orgia di sangue e violenza tanto estremi, quanto inutili, il film perde rapidamente i presupposti interessanti del primo quarto d'ora. Due sconosciuti si ritrovano chiusi in una stanza insieme ad un cadavere insanguinato e scoprono di essere diventati le possibili prossime vittime del serial killer noto alla polizia con il soprannome de L'Enigmista. Entrambi hanno ricevuto un 'compito' dal loro rapitore: Adam, un fotografo annoiato dalla vita, deve 'agire'. Larry, un medico specializzato in tumori, deve uccidere Adam, altrimenti sua moglie e sua figlia moriranno. Tutto questo entro le sei di mattina. In maniera metodica il regista James Wan dissemina tra un flashback e l'altro, una serie di elementi per aiutare lo spettatore ad inquadrare la situazione e - al tempo stesso - a portarlo leggermente fuori strada.

Il profilo dell'enigmista è insolito: un assassino che non uccide le sue vittime, bensì fa in modo che queste - poste in situazioni estreme - possano salvarsi a patto di sfruttare gli indizi che possano guidarle alal salvezza. Non accettare le regole del gioco o fraintenderle equivale a morire. Per non parlare del fatto che nella sua lucida follia, il criminale ha l'ardire di fregiarsi di un intento 'morale': prendere persone disilluse che non hanno amato o apprezzato la loro vita e 'curarle' o 'punirle' per il loro crimine. Quali siano le motivazioni dell'enigmista è abbastanza facile da intuire: un uomo severamente malato che si vuole vendicare dei 'sani' e della loro dabbenaggine nel dilapidare la fortuna che non sanno neppure di avere. Purtroppo questa serie di presupposti che - per quanto banali - lasciano sperare in un thriller almeno geometrico sebbene artefatto, vengono sfruttati malamente nel corso di una pellicola troppo lunga e - soprattutto - venata da una serie di momenti straordinariamente inutili.

Per non parlare di tutta la serie di cliché che sembrano il frutto amaro dell'eccesso di zelo nel seguire pedissequamente il manuale del moderno regista di thriller - horror un po' trendy e con la vocazione del fighetto. Quello che pian piano pensiamo possa essere l'assassino, ovviamente, è solo una copertura: i finali a sorpresa sono talmente tanti da perderne rapidamente il conto e il senso. Il poliziotto lacerato, il dottore fedifrago e la moglie ingenua sembrano quasi maschere della commedia dell'arte più che i personaggi di un thriller del ventunesimo secolo. Tutto succede secondo una rigida costruzione ispirata da una sfiga assurda che si traduce nella perfezione 'assoluta' del piano dell'enigmista. Danny Glover che interpreta un poliziotto ossessionato dalla caccia all'assassino al punto da non avere più una vita propria (dove l'abbiamo già sentita questa...?) si presenta all'appuntamento con il killer che ha ucciso il suo compagno (nuova, eh?) con una sola pistola e un unico caricatore con sei proiettili sei... Insomma, è vero che un film deve arrivare a durare più di un'ora e mezza, ma a tutto c'è un limite.

Per non parlare del fatto che - sempre nel campo del depistaggio - non capiamo come l'enigmista possa soffrire di una malattia gravissima e comportarsi al tempo stesso come un piccolo Superman inarrestabile e inossidabile... In più l'articolazione gotica degli oggeti utilizzati dall'assassino (che vanno da manichini a strumenti di tortura sofisticati, a cellulari e computer...) sembra raggiungere cifre esorbitanti con la riuscita dei suoi trucchi e inganni basata sul fatto che tutto vada sempre come previsto, senza la più piccola incertezza. Al punto che il film si conclude pensando già al sequel, peraltro, attualmente in preproduzione.

Insomma, un pasticciaccio brutto, brutto soprattutto per la serie di ripetuti insulti nei confronti dello spettatore. Oltre ad una serie di battute raccapriccianti per il loro essere evidentemente pensate per un pubblico di adolescenti di bocca buona, quello che più sconcerta è il mix di violenza crassa con tanto di musica heavy metal e montaggio da videoclip, mescolata ad una trama, solo sulla carta, raffinata, quanto, piuttosto, in realtà prodotto della mente di un regista e uno sceneggiatore nemmeno trentenni divertitisi - pure troppo - a immaginare uno scenario tanto falso quanto artefatto.

Il problema è che la paura al cinema, soprattutto per quanto riguarda il thriller, deve avere le sue fondamenta nelle emozioni, non nell'essere cerebrali, ma con un limitato senso della citazione che non va più indietro degli anni Ottanta. La tensione affonda le sue radici nel possibile, nel plausibile e nel cosiddetto suspension disbelief.

Se questi tre elementi vengono a mancare, l'ammirazione per la costruzione dei finali a sorpresa e a incastro ha un effetto limitato: in tal caso più che dall'enigmista, lo spettatore penserà a salvarsi dalla noia. Il buon cinema pretende non solo delle idee interessanti, ma anche il talento per realizzarle. Cosa che sembra mancare sia allo sceneggiatore che al regista autori di una storia che - difficilmente - qualsiasi attore avrebbe potuto rendere credibile e 'spaventosa'.

Saw resta così un mero esercizio di stile sanguinolento e volutamente disgustosto di cui non si sentiva il bisogno, alla ricerca di un improbabile contenuto radicato nello scontato e nel deja vu.