Geremia, un sessantenne che vive con l’anziana madre malata, dietro la copertura rappresentata da una sartoria svolge l’attività di usuraio.
L’incontro con Rossana, figlia di una delle sue vittime, non sarà privo di conseguenze…
Alleggerito secondo alcune dichiarazioni di sei e secondo altre di venti minuti (a 35mm 1 minuto di proiezione corrisponde a 27,36 metri di pellicola, quindi nel primo caso circa 164 metri in meno, nel secondo 547…) rispetto alla versione mostrata a Cannes 2006 dove era in concorso, arriva dall’universo delle buone intenzioni L’amico di famiglia, terzo lungometraggio di Paolo Sorrentino dopo L’uomo in più e Le conseguenze dell’amore.
Le buone intenzioni ci sono, eccome, e sarebbe bello se per una volta non finissero a lastricare le vie dell’Inferno. Non ci finiscono, perlomeno non completamente, ma certo ci vanno vicino. Colpa, pare di poter dire, di una storia che non riserva poi grandi sorprese e che si muove attorno a due capisaldi. Il primo è il rifiuto a priori di qualsivoglia netta separazione tra Bene e Male, così che mentre da un lato Sorrentino ha cura di sottolineare il fare falsamente bonario del laido Geremia (Giacomo Rizzo) che in realtà è un essere assai pericoloso, dall’altro sta bene attento a piazzargli tutt’attorno i giusti contrappesi così da sottolinearne anche i lati meno oscuri, facendone quindi un personaggio complesso e non un semplice villain tout court.
Il secondo caposaldo, strettamente legato al primo, è che una volta che ci trova a dover scegliere la pena da comminare, non viene dimenticata la natura particolare del peccato di cui si è macchiato il peccatore.
Lo scioglimento un po’ brusco della storia, dove in quattro e quattr’otto Geremia si ritrova a mal partito, segno forse che i tagli sono più vicini ai venti minuti che ai sei, conferma che la cifra precipua del film non è da ricercarsi tanto nella storia, che come già detto non è eccezionale, quanto nella capacità di Sorrentino di porsi come inesauribile creatore di insolite inquadrature dall’insolito contenuto: gli bastano una manciata di minuti e due squadre femminili di pallavolo (gioco-sport questo che ricorrerà ossessivamente lungo tutto il film…) per ricreare un universo immaginario dove l’attesa è molto più importante dell’azione, dove l’alto e il basso non significano più nulla e dove è perfettamente inutile fare previsioni sulla posizione delle giocatrici visto che queste finiranno con l’apparire nell’inquadratura successiva sempre nel posto più distante da quello immaginato.
L’amico di famiglia è così più anarchico e più barocco dei lavori precedenti. Trasuda ad ogni fotogramma di particolari che volenti o nolenti finiscono con l’imporsi all’attenzione dello spettatore, nella fattispecie quelli chiamati ad arricchire la costruzione dei personaggi: l’unghia del mignolo di Geremia, lunga e curatissima, il suo incessante in una sorta di parodia del correre, la sua bandana per l’emicrania, il suo braccio ingessato, l’onnipresente sacchetto di plastica, il monitor televisivo sempre acceso, i poster che addobbano il camper in disuso dove vive il braccio destro di Geremia, il country dipendente Gino/Fabrizio Bentivoglio, la giacca con le frange di quest’ultimo, la spallina scucita del vestito da sposa di Rossana/Laura Chiatti, la prostituta che sembra uscita da 8 ½ e lo strano rituale erotico (?) con i palloni da pallavolo (ancora…) cui la costringe Geremia, tutto concorre alla costruzione di un mondo re-inventato di continuo dal padre padrone della pellicola Sorrentino, che mostra la corda solo e soltanto quando abbandona la cifra che lo contraddistingue, vale a dire un’atmosfera surreale da sogno ad occhi aperti a favore di canoni narrativi più consueti.
I problemi di L’amico di famiglia sono riposti, a ben vedere, in queste due anime, in fondo impossibili da tenere assieme.
Sergio Gualandi
Calza bene a proposito del cinema di Paolo Sorrentino il titolo di un vecchio film di Bernardo Bertolucci con Ugo Tognazzi, La tragedia di un uomo ridicolo. Di uomini ridicoli e sgradevoli, anonimi ed eccentrici, veri e propri ossimori viventi, imprigionati in una quotidianità, che ne determina in modo implacabile e asfissiante le azioni, raccontano, infatti, i lavori del trentacinquenne regista napoletano. Basti pensare al Tony Pisapia dell’Uomo in più, che, rovinato dall’accusa di violenza carnale su una sedicenne, nonostante le successive assoluzioni giudiziarie, decide di abbandonare il mondo dello show business e di prendere in gestione un ristorantino sul mare, o al Titta di Girolamo delle Conseguenze dell’amore, commercialista della mafia, che si muove sempre guardingo fra i corridoi dell’austero albergo svizzero in cui alloggia, ma non riesce a difendersi dalle trappole dell’innamoramento.
Analogamente, in questo terzo film, L’amico di famiglia, passato in concorso a Cannes la scorsa primavera, Sorrentino narra la storia di un uomo vecchio, laido, cattivo e sgradevole, che ufficialmente si guadagna da vivere come titolare di una sartoria dell’Agro Pontino, ma che in realtà, è un avido usuraio senza scrupoli, che ha ereditato questo ‘mestiere’ dal padre. Geremia – questo il nome dell’uomo – va sempre in giro con una busta di plastica, non si risparmia nel dispensare pillole di saggezza, orientate per lo più in senso anticonsumistico, citazioni dotte, desunte – come lui stesso tiene a sottolineare – dal Rider’s Digest. La sua è una vita priva di soddisfazioni e di felicità, fatta eccezione per la passione per i gianduiotti e per il denaro, che accumula a vista d’occhio grazie al prestito a strozzo, ma che si guarda bene dallo spendere. Divide un modesto appartamento con la madre invalida, sempre a letto, golosa di merendine. Dalle tapparelle l’uomo spia delle giocatrici di pallavolo, attratto com’è da quella bellezza e da quel calore umano, da cui si sente escluso fin dalla nascita.
Geremia è aiutato nei suoi affari sporchi da una sorta di cowboy dall'accento veneto, che non vede l’ora di abbandonare la scalcinata roulotte in cui vive per emigrare nel Tennessee, paradiso del country. È questi l’unica persona con cui ha un rapporto quasi confidenziale, anche se non certo di amicizia (“Geremia, ma secondo te siamo amici noi?” “Devo dire che è un’eventualità alla quale non avevo mai pensato”). Ma la vita dell’usurario subisce un brusco cambiamento quando conosce una ragazza, appena eletta Miss Agro Pontino, i cui genitori si sono rivolti a lui per avere i soldi necessari per una bella festa di nozze.
Tutto ruota intorno al denaro nel microcosmo umano in cui si muove Geremia. Il ritmo narrativo dell’Amico di famiglia è, infatti, continuamente scandito dalla sua ricerca da parte della varia umanità che circonda l’usuraio, dinanzi alla quale egli si pone come un benefattore, come il macchinista del loro treno dei desideri. Del resto, le sue vittime non sono migliori di lui: chiedono prestiti, che poi non sono in grado di restituire, spesso per ragioni di pura vanità (come acquistare un titolo nobiliare o pagarsi un intervento di lifting).
In questo contesto il denaro, oltre ad essere l’oggetto-valore per antonomasia, è, sotto forma di avidità, cupidigia, brama, il fattore che determina continui cambiamenti di ruolo di questo o quel personaggio, modifica e ribalta sicurezza economica, affetti, amicizie, scatenando di volta in volta il dramma o la commedia. Ne deriva il ritratto di un mondo popolato da corpi senza nerbo, ripiegati su stessi, eterodiretti, dove le cose, gli interni con la loro geometria spoglia, partecipano di questa staticità, mentre ogni elemento dello spazio sembra esistere per se stesso, senza relazione alcuna con l’ambiente.
È per questo assolutamente azzeccata la scelta di girare il film tra le architetture razionaliste di Sabaudia e Latina – vero e proprio correlativo oggettivo dello stato d’animo dei personaggi – che consentono alla macchina da presa di Sorrentino di avere uno sguardo netto e controllato sui corpi degli attori e di giocare allo stesso tempo con curve e volumi. Il tutto sotto la guida di Luca Bigazzi, forse il miglior direttore della fotografia italiano, e della bella colonna sonora di Teho Teardo.
E in questo scenario si muovono i bravissimi intepreti, da Fabrizio Bentivoglio all’emergente Laura Chiatti, da Gigi Angelillo a Emilio De Marchi, e soprattutto Giacomo Rizzo, straordinario attore teatrale di scuola napoletana (scoperto da Pasolini, che lo inserì nel cast del Decameron e presente nel Novecento di Bertolucci nel ruolo del gobbo), la cui scelta felicissima rientra in quel progetto di recupero di attori e attrici dimenticati, portato avanti da Sorrentino (si ricordi a questo proposito, il Raffaele Pisu delle Conseguenze dell’amore).
Insomma, un gran bel film da non perdere.
Vito Santoro
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