Diretto da Patrick Yau e considerato uno dei film noir più dolenti e importanti della cinematografia hongkonghese dei fine anni ’90, Expect the Unexpected mette in scena una classica storia guardie e ladri virandola verso la disperazione. Un gruppo di malviventi del luogo, aiutati da due complici venuti dalla Cina continentale, si preparano ad assaltare una gioielleria di Hong Kong, scherzando dentro un ristorante. I criminali si rifugiano in un palazzo riuscendo per il momento a fuggire, ma i membri scelti dell’Organized Bureau Crime della polizia si preparano a sventare il prossimo colpo, di cui li ha avvertiti uno dei complici del gruppo. Capitanati dal mite e ligio al dovere Ken (Simon Yam) a cui fa da contraltare l’irriverente e burlone Sam (Lau Ching-wan), gli agenti speciali della polizia si ritroveranno ben presto alle prese con un caso apparentemente facile, che finirà per distruggere ogni labile certezza presente nelle loro vite, dall’amore all’amicizia, travolti dalla forza violenta del caso, o forse della Storia. Accompagnati da tre fidati agenti scelti (Hiu Siu Hung, Ruby Wong e Raymond Wong), Sam e Ken cercano di seguire le tracce della banda di criminali, che dovrebbero a breve assaltare un’altra gioielleria della zona; per farlo, si avvalgono tra l’altro della presenza di una testimone osculare, Mandy (Yoyo Mung), proprietaria del ristorante dove il gruppo di criminali si era riunito. Ben presto fra Ken e Sam nasce una strisciante rivalità a causa della ragazza, che sembrerebbe preferire il mite Ken ai modi più spartani ma autentici di Sam. La realtà però giungerà presto a ribaltarsi, prendendo una direzione del tutto inaspettata.
Prodotto da Johnny To (il cui successivo Breaking News deve molto proprio a questo film per spunti e atmosfere, soprattutto nella sequenza iniziale ambientata nel palazzo), Expect the Unexpected viene ricordato soprattutto per il finale agghiacciante che toglie ogni speranza di happy ending e che molti hanno riconosciuto come una chiara allusione al futuro “blindato” di Hong Kong, restituita dalla Gran Bretagna alla Cina nel 1 luglio del 1997. Il finale del film, in particolare, non lascia alcuna illusione su quale potesse essere all’epoca il clima generale diffuso nell’isola in previsione del ritorno alla “madrepatria”. Se da un lato la struttura circolare del film, che inizia e finisce su due finestre diverse ma complementari – la vetrina del ristorante e lo schermo del televisore, che annuncia le breaking news all’attonita Mandy – rimanda al microcosmo compatto e idealmente autarchico rappresentato dall’isola, fatta di vetro come lo sono la vetrina e il televisore, dall’altro la presenza insidiosa del taxi verde, utilizzato per sbaglio dai criminali provenienti dal continente, rappresenta un richiamo evidente e allusivo alla Cina. Ad Hong Kong, esistono due tipi di vetture che svolgono le funzioni di taxi: una rossa, per le zone principali di Hong Kong Island e Kowloon e una verde, per le isole limitrofe e i cosiddetti Nuovi Territori, o NT per la popolazione locale. Situati immediatamente a nordovest di Kowloon, i Nuovi Territori rappresentano non soltanto la zona più rurale e interna della Regione Ammistrativa Speciale (o SAR, come Hong Kong è ufficialmente definita sulla carta); essi rappresentano altresì la zona dell’isola più prossima alla terraferma, fungendo quasi da passaggio verso la Cina, tanto da offrire come linea di demarcazione fra la SAR e la Repubblica Popolare Cinese qualcosa di semplice e allo stesso tempo paradossale come un semaforo, oltrepassato il quale vi è il colosso cinese e non più la Città di Vetro. Che il regista abbia scelto di contrassegnare la diversità dei “cinesi” attraverso un taxi verde, è una dichiarazione d’intenti e insieme una spia di una malessere diffuso in quel periodo, quando il 1997 sembrava costituire una sorta di Apocalisse insormontabile e inevitabile. Forse, se visto indipendentemente dalla situazione contingente, il film nel suo complesso potrebbe apparire poco incisivo agli occhi scettici di un occidentale, ma il finale resta comunque un ottimo antidoto alla finzione hollywoodiana che vuole i buoni trionfare a tutti i costi, anche se, se si volesse cercare una poetica più complessa e profonda legata all’immaginario apocalittico pre e post ’97, sarebbe meglio raffrontare il film con l’ancor più disperato e cinico Made in Hong Kong di Fruit Chan, uscito proprio nell’anno dell’incriminata restituzione.
Vedere anche recensione a Made in Hong Kong
Extra
Filmografia degli attori
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