Può essere un remake un capolavoro? Forse sì (anche se è molto improbabile…), potrebbe accadere prima o poi, ma allora toccherà aspettare qualche altro film e non certo The Departed, decretato come tale, come capolavoro cioè, da più parti e remake di Infernal Affairs di Andrew Lau e Siu Fai Mak.
Rispetto al prototipo di Hong Kong il film di Scorsese, solitamente poco avvezzo ai remake (oltre a questo si segnala solo Cap Fear del ’91, remake di Il promontorio della paura di J. L. Thompson), è un bell’esempio di come quasi sempre il successore paghi pegno, in termini di riuscita, di fronte al predecessore, o prototipo che dir si voglia.
L’inizio in pompa magna, che pare abbia già fatto storia, vede Costello/Jack Nicholson alle prese con l’esposizione della sua personalissima weltanschauung, riassumibile nell’editto “Piuttosto che essere un prodotto del mondo è il mondo a dover essere un mio prodotto”, il tutto mentre è impegnato in un lavoro che non ci aspetta sia svolto da un boss del suo calibro, cioè il ritiro del pizzo dal commerciante taglieggiato. Poi, tanto per far capire di che pasta è fatto, segue il corteggiamento della figlia del proprietario e l’arruolamento a suon di regalie di un ragazzino nelle legioni del Male, ragazzino che pare promettere bene e che gli tornerà utile più avanti (sarà forse perché osa guardare Costello con uno sguardo timido ma deciso?).
Infine, in un rapido flash black, vediamo Costello alle prese con l’esecuzione a sangue freddo di una coppia responsabile di chissà quale misfatto.
Esaurito il preambolo è la volta di altre due figure del film, Costigan/Leonardo Di Caprio e Sullivan/Matt Damon, entrambi cadetti dell’Accademia di Polizia, entrambi promettenti, entrambi futuri agenti undercover, tra le file della banda di Costello il primo, tra le file della stessa polizia il secondo (ovviamente si tratta del ragazzino visto nell’incipit), ognuno dei quali, come è ovvio, riferirà a un capo diverso.
Sistemati così i pezzi però iniziano i problemi: duecentotrenta minuti di runtime non bastano a far amare un film cosiffatto, visto che risulta impossibile trovare una porta d’ingresso nella storia: se ci si cala nei panni di Costello si corre il rischio di fare indigestione di malefatte, vista la meticolosa determinazione da parte di Nicholson, mai così a briglia sciolta, nel voler aggiungere al solito corredo del mafioso scorsesiano tre ulteriori elementi: i primi due lasciano perplessi (mentre dialoga con Di Caprio si gingilla con una mano strappata a chissà chi, poi in un incontro con Matt Damon in un cinema porno si presenta con un pene finto attaccato alla cintura esibendosi nella parte di un esibizionista…), mentre il terzo oltrepassa direttamente ogni perplessità e lascia direttamente per metà basiti e per l’altra metà divertiti (prima ammazza una mosca e poi oplà, se la mangia…).
Si tratta, è evidente, di un continuo gioco al rialzo che fa terra bruciata attorno al personaggio Costello, e sarà allora per questo che tutte le volte che Nicholson si trova a interagire con i suoi giovani partner, Scorsese non riesce a inventare nulla di nuovo se non una serie snervante di campi/controcampi che andranno pure bene, per carità, ma che semplicemente non riescono mai a restituire appieno la sensazione di una vera e propria interazione tra gli attori.
Se poi in cerca di una via d’uscita, pardon, d’entrata, ci si rivolge alla coppia speculare del film, Di Caprio/Damon, ben presto ci si accorge che non c’è traccia di quel rispecchiamento reciproco che doveva essere il pezzo forte del film, e non basta certo la circostanza che vede i due innamorati della stessa donna, o l’altra che li vede spesso (il pedinamento di Damon da parte di Di Caprio, per esempio) vestiti in modo identico (inutile aggiungere che in Infernal Affairs questo punto cruciale, quello del rispecchiamento cioè, è indagato a dovere attraverso una svariata gamma di elementi che vanno dalla pura rivalità tra i due infiltrati, a ciò che sembra un vero e proprio legame di amicizia seppure ostacolato dalle diverse appartenenze, unito a una sorta di compassione di ognuno per i destini dell’altro…).
Se Nicholson è abbondantemente fuori dello spartito, Di Caprio e Damon al contrario peccano per motivi opposti: il primo sembra Joe Pesci più alto e più magro ma con molto meno talento; lo stesso grado di psicopatia, le battute urlate, la violenza a fior di pelle. Matt Damon, poco talento anche lui, si colloca invece sul lato opposto, glaciale e in fin dei conti un poco imbambolato (per inciso sfigurano entrambi di fronte al più bravo di tutti, cioè Mark Wahlberg nei panni di uno sboccatissimo sergente che tratta tutti a pesci in faccia…).
Ma in fin dei conti tutto dipende dalla storia che Scorsese non ama sentire definire come un remake (pare preferisca di gran lunga il termine “ispirata a…”).
Sta di fatto però che The Departed ricalca, a tratti in modo imbarazzante, Infernal Affairs con svariate scene riproposte tali e quali, inquadratura per inquadratura.
Quando poi se ne discosta, lo fa solo per ricadere nelle solite banalità: il trito e stucchevole manicheismo che come risultato produce soltanto l’anestesia del conflitto (Di Caprio cavalcherà pure col diavolo ma solo e soltanto fino a un certo punto…), il solito finale che prima lascia credere che per una volta tanto il mazzo resterà sparigliato salvo poi tradire puntualmente le attese.
Un pregio di The Departed? Fermo restando che non c’è una scena anche lontanamente paragonabile all’altro film di Scorsese che più gli somiglia, cioè Casino, il finale, comunque esemplare nel segnalare la differenza concettuale tra prototipo e remake a favore largamente del secondo, riesce a chiudere la storia consegnando allo spettatore una domanda alla quale è tutt’altro che semplice rispondere, ossia ”Chi è veramente il personaggio interpretato da Mark Wahlberg e perché si comporta così?”
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