Il giallo canadese, per noi italiani, può essere considerato come l’araba fenice che, come tutti sanno, che ci sia ciascun lo dice, ma dove sia nessun lo sa (e chiedo perdono per la citazione a memoria per quanto non virgolettata). In effetti nemmeno lo scrupolosissimo Ernesto G. Laura, nella sua Storia del giallo. Da Poe a Borges del 1981 riesce a inquadrare, bibliograficamente e criticamente, una produzione evidentemente colonizzata del vicino gigante statunitense. L’unica eccezione può essere costituita da Margaret Doody che, dopo una fugace apparizione in Italia nei primi anni Ottanta nel Giallo Mondadori, è stato da poco riscoperta da Sellerio che ne sta pubblicando la serie (giunta ora al quinto volume, compresa la ristampa di quello d’esordio) dedicata al filosofo Aristotele trasformato in un acutissimo detective ante litteram. Viceversa è canadese solo l’ambientazione (per la precisione a Montréal) dei serial thriller di Kathy Reichs (americana di Chicago) con la sua Tempe Brennan al perenne inseguimento (per spessore narrativo e per successo editoriale) del suo modello letterario, l’inarrivabile Kay Scarpetta di Patricia Cornwell. Karen Irving, invece, secondo quel poco che apprendiamo dal suo sito www.karenirving.com, è canadese a tutti gli effetti, ha soggiornato in diversi parti del paese prima di stabilirsi a Ottawa dove ha ambientato i tre romanzi (ma un quarto è in preparazione) di cui Katy Klein è la protagonista. Uno dei problemi fondamentali per chi scrive gialli è la caratterizzazione umana e professionale del detective: si può dire che ormai tutte le possibilità siano state sperimentate (poliziotti pubblici e privati, sacerdoti e rabbini, giornalisti e vecchie zitelle, medici di ogni specializzazione e docenti universitari di qualsiasi tipo; persino cani e gatti, in senso letterale, hanno contribuito alla gloria del genere) e naturalmente ogni autore si è scervellato per attribuire al suo eroe (o alla sua eroina) qualche vezzo (o vizio) che gli/le permetta di distinguersi dalle centinaia di colleghi che affollano le librerie e gli schermi televisivi di tutto il mondo. Non stupiamoci quindi del retroterra professionale e personale un po’ bislacco di Katy Klein, donna di mezza età, dal fisico massiccio, dal look non sempre impeccabile e dal carattere spesso ribelle e impulsivo: ebrea canadese, la cui madre ha conosciuto l’orrore dei campi di sterminio, da un lato si dichiara apertamente atea, dall’altro rispetta i riti consolidati delle feste tradizionali ebraiche; col suo ex marito, Peter Fischer, giornalista del Telegraph, ha mantenuto ottimi rapporti: addirittura abitano su due piani della stessa palazzina (così la loro figlia quindicenne Dawn non ha sofferto della separazione) e spesso lui le dà una mano quando lei si ficca nei pasticci; come se non bastasse, Katy Klein fa l’astrologa (e tiene a precisare la differenza di tale professione con quella dell’indovina o della medium), pur essendo stata, nel recente passato, un’apprezzata psicologa costretta ad andarsene solo a causa delle molestie sessuali del suo diretto superiore. Naturalmente, in quanto così caratterizzata, il suo rapporto col delitto non può che essere casuale o indiretto: e infatti in La figlia di Giove la vicenda ruota attorno alle morti, in rapida successione, di Marion, donna infelice e affetta da crisi epilettiche, di Nigel Farnsworth, telepredicatore dal curriculum non proprio immacolato e della tredicenne Rose, figlia di Marion, in seguito a un aborto spontaneo. Katy indaga in quanto coinvolta in prima persona su tre fronti: ha conosciuto Marion a una festa della sua amica Carmen Capricci, ha poi accolto in casa la fuggiasca e problematica Rose, è diventata poi il bersaglio di una serie di violenze e attentati che hanno origine dalla sua controversa professione. Nell’inchiesta viene aiutata da figlia e marito, ma la vera spalla è il detective Steve Benjamin col quale migliora sensibilmente i rapporti dopo quelli tempestosi risalenti alla sua prima avventura. Il finale, pur non essendo del tutto imprevisto, rappresenta comunque un discreto colpo di scena. Eppure il romanzo non ci convince del tutto. La trovata della detective astrologa (e addirittura con un passato da psicologa) non incide in maniera decisiva sull’intreccio: qua e là viene fatto sfoggio dall’autrice, anch’essa esperta della materia, di dotte spiegazioni sui movimenti degli astri e sulle loro faste o nefaste influenze, ma poi Katy Klein nelle sue investigazioni si affida più che altro alla logica e al buon senso nonché a un pizzico di sana incoscienza che solo per caso non le è ancora costata la vita. La collaborazione col poliziotto rientra nella antichissima tradizione della “coppia investigativa” (col detective-genio e la “spalla” devota che segue arrancando); e i temi che emergono durante la narrazione (integralismo religioso cristiano, stratificazione socio-urbanistica della città, problemi di coppia e dell’adolescenza) sono comuni a moltissime altre produzioni nazionali, in special modo quelle statunitensi. Anche Ottawa, pur descritta in modo abbastanza preciso nel suo essere assai più provinciale rispetto a Montréal e Toronto, non riesce a sprigionare quel fascino alternativo che forse era nelle intenzioni della Irving. In conclusione La figlia di Giove risulta un discreto prodotto di artigianato che non ha saputo però sfruttare appieno due intuizioni potenzialmente vincenti: la professione della protagonista e l’ambientazione canadese. Un buon editor, in fin dei conti, con pochi colpi di penna, potrebbe trasferire la vicenda negli Stati Uniti e trasformare l’astrologa in una pittrice, un’arredatrice o una qualsiasi altra professionista indipendente. Peccato.
Voto: 6.5 / 10
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