- Vedo anche i quadri di Angelo Cubacoschi.

Gianna Lentuli cambiò espressione, si irrigidì, spinse in avanti il busto e battè i pugni sulla scrivania, sfiorando il computer portatile.

- Se vuole spiegarmi il motivo della sua visita - distaccata e altezzosa, si gettò all’indietro contro la spalliera dell’ampia poltrona, accese una sigaretta dimenticandosi di averne già una nel posacenere e squadrò Martina, in piedi e immobile come una povera suddita di “Re Bomba”.

La ragazza la soprannominò all’istante “la borbonica”

Gianna Lentuli era convinta di appartenere alla casta di coloro che detengono il “potere” perché occupano un posto di lavoro inamovibile, inquadrato in una pubblica istituzione. E si sa che l’idea che si ha del “potere” e il fascino che esercita su chi aspira ad impossessarsene ed a divenirne a qualsiasi titolo e livello un officiante, ammalii molta gente, per i vantaggi e i favori che giustifica, concedendoli o richiedendoli. Un sogno.

Era facile notare, nella funzionaria, sotto una patina di sbrigliatezza e disinvoltura, una vecchia mentalità superficiale, fuori tempo, però viva ed influente, in tutta la sua vuota efficienza. Quella mentalità era utile a spadroneggiare e manifestare arrogante disprezzo per il cittadino, poteva trasformarsi nella migliore alleata, inconsapevole a volte, della criminalità organizzata, annullando ogni tentativo di miglioramento nella vita associata dei cittadini.

Erano i soliti discorsi sulle “aperture”.

“Già chi avrebbe dovuto cominciare ad aprire che? “La mente o le gambe? quale delle due avrebbe avuto la meglio? c’era da chiederselo? possibile che io debba scivolare verso il peggior catastrofismo? era però vero che la gente sebbene influenzati dalle molte mode che duravano lo spazio di un mattino o di un fine settimana o di un mese o due, erano rimasti, dato inoppugnabile identici a se stessi come se tutto scivolasse sulla loro pelle, con i vizi e i difetti mentre le qualità finivano ridicolizzate?”, commentò tra sé Martina.

All’ora dello “struscio”, sulla via Marina, quando la gente osservano e più frequentemente del previsto acquistano i quadri dei pittori che espongono all’aperto, Gianna Lentuli ritrovò il suo quadro.

- Sono in ritardo, ma non ho dimenticato il mio quadro – lo pagò e lo prese da dove era appoggiato contro una palma e lo infilò in un sacchetto di plastica.

- Che cazzo vuole, a parte l’osservazione sui quadri che forse anche lei ha comprato – disse con la sigaretta incollata alle labbra – Li ho pagati 50 euro l’uno, se le interessa, le va il prezzo? – disse teatralmente tesa alla provocazione, confermando Martina nell’opinione che se n’era fatta. “La borbonica” tirò una lunga boccata e, con soddisfazione, le soffiò il fumo contro il volto, affumicandola.

- Nella villa di Tulliani ho trovato il suo numero di telefono e vorrei…

Gianna Lentuli reagì d’istinto: aggrottò le sopracciglia, strizzò gli occhi, abbassò i lati della bocca, accennò un’indubbia espressione di diniego, assunse un’espressione schifata, una bestemmia, una minaccia al suo potere personale prima e di funzionaria dopo, e non avrebbe mai acconsentito alla richiesta di un cittadino, senza gli obbligati passaggi burocratici, altro che “vorrei”.

- Ebbene? Non vedo che cosa c’entri con la sua visita, siamo alle corna! – terminò con una grande risata.

- Proprio un bel paio di corna, Marco Tulliani è stato ucciso.

Martina appoggiò sul pavimento la Mamiya ed estrasse dal taschino della minigonna plissettata di un tenue colore rosa, il foglietto con il numero di telefono e lo mostrò alla funzionaria.

- Unico indizio per capirci qualcosa – disse fredda Martina, piazzandoglielo sotto gli occhi. – Il pittore – continuò – dipingeva su richiesta, lasciando al cliente la scelta del soggetto, vero?

Dopo lo “struscio” anche lei era andata al concerto dei “Guitar Ensemble” e per non arrivare in ritardo tenne con sé il quadro.

Il concerto si teneva all’interno della stanza del castello ex corpo di guardia della marina borbonica.