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Il commissario Agostino Garavani stava seduto alla sua scrivania, nel suo studio. Un caldo che si moriva. Lo aveva detto lui a Migliani, il suo vice, che con un agosto così insolitamente fresco e piovoso, settembre non avrebbe lasciato scampo. Il ventilatore ronzava di sottofondo ai suoi pensieri e girava e rigirava a destra e a sinistra, ma lui non se ne accorgeva neanche, preso com’era da quello che era successo la notte precedente. Migliani l’aveva buttato giù dal suo letto solitario alle tre di notte, dicendogli che c’era stato un omicidio e che la questione era piuttosto delicata. Forse era opera di un pazzo, o meglio, di una pazza, una fuori di testa. Più tardi si era reso conto che il suo vice aveva ragione, nel senso che la faccenda era delicata. Non delicata perché particolarmente complicata, ma perché gli causava una strana sensazione,come se la faccenda in qualche modo lo riguardasse. E in un certo senso si rimproverava questo fatto, perché era necessario che lui fosse sempre distaccato e obiettivo, come al solito, come gli aveva insegnato la sua esperienza di ormai dieci anni. Ma la sensazione non era scomparsa, anzi, era aumentata dopo l’incontro con la presunta omicida. Quello che l’aveva colpito di lei erano stati i suoi occhi, a volte fissi nel vuoto, come se guardasse qualcosa anni luce lontana da lei a volte incandescenti come la lava che esce dal vulcano, occhi che indagavano dentro di lui, che lo leggevano come un libro aperto. Il risultato era che non aveva chiuso occhio tutta la notte e aveva un gran mal di testa. Si sentiva come se il suo cervello fosse lievitato e, gonfiandosi, picchiasse contro la scatola cranica per poter uscire da essa ed espandersi liberamente. Aprì il cassetto della sua scrivania, cercò la scatola di pillole, prese una delle pastiglie e, portandosela alla bocca, la mandò giù con un solo sorso d’acqua che bevette direttamente dalla bottiglietta di plastica.

Lo sguardo cadde su una foto poggiata sulla sua scrivania. Era una foto incorniciata, di lui con sua moglie, una foto che avevano fatto la scorsa estate, ad Aci Trezza, nella barca del suo amico Fabrizio. Non aveva avuto ancora il coraggio di toglierla, dopo un anno. Più che il coraggio gli era mancata la forza, neanche fosse di granito e pesasse due quintali. La foto ritraeva lei sorridente, in costume da bagno e pareo e i capelli scomposti dalla brezza marina e lui, pure sorridente ma con gli occhi semichiusi, come se l’avessero beccato mentre non era ancora pronto al clic,che da dietro le cingeva la vita abbracciandola. Le braccia di lei erano poggiate sulle sue , mentre gli stringeva le mani.

Francesca.

Il suo sorriso da togliere il fiato.

Quella era stata l’ultima estate felice con sua moglie. L’ultima estate prima della separazione, un anno fa, dopo quattro anni di matrimonio e niente figli. Poi, nel mese di settembre, un maledettissimo giorno di settembre che pioveva che dio la mandava e il cielo pareva dovesse spaccarsi e cadere in mille pezzi sulla terra, talmente nero e incazzato era, lui era tornato a casa e lei gli aveva detto semplicemente, appena lo aveva visto entrare in salotto e aver poggiato la sua valigetta da lavoro sul divano, quasi a volersi togliere subito il fastidio:

- Agostino, ti devo parlare.

Semplicemente gli aveva detto che amava un altro e che se ne sarebbe andata.

Semplicemente un blocco di granito era caduto sulla testa del composto commissario Garavani.

Migliani entrò nella stanza, distraendolo così dai suoi pensieri e riportandolo al presente

- Agostino, è arrivata la signora Serto, la testimone, quella che tu avevi fatto chiamare.

- Falla accomodare Nicola, grazie.

Entrò la vedova Serto, una signora grassoccia, sulla sessantina, dall’aspetto pacioso che mostrava un carattere espansivo. Non pareva per nulla inibita dal trovarsi in un posto come quello e in quella situazione. Aveva l’aria di una che non si fa mai i fatti suoi, una di quelle che sanno vita, morte e miracoli di tutti quelli che abitano nel raggio di dieci chilometri da casa sua.. Iniziò a parlare senza che il commissario glielo chiedesse.

- Mamma che caldo, commissà! Qui a Torino si muore, con tutta questa umidità! - iniziò a farsi vento con un ventaglio di plastica col pizzo pure di plastica. – E pensare che ad agosto si stava così bene. Glielo dicevo io alla signora Restivo, quella del piano di sopra, che dopo tutte quelle piogge sarebbe venuto il caldo, proprio a settembre! Non è come da noi in Sicilia, che magari fa più caldo, ma non c’è tutta st’umidità!