Riprendo uno scritto del musicologo Manlio La Morgia, apparso su La Scala – Rivista dell’Opera n. 141-142 dell’agosto-settembre 1961, dal titolo La prima Bohème Italiana,  perché scoperta, riscoperta e scopritore sono finiti nel nulla e il discorso, davvero interessante, è stato bruscamente interrotto.  Lasciando a Cesare ciò che è di Cesare, intendo portare a nuova luce le pagine davvero sorprendenti e, in qualche modo, sensazionali (una notizia vera, se volutamente non diffusa come essa merita, sensazionale lo diventa automaticamente) di La Morgia, aggiungendo qualcosa di mio per completare la corretta informazione.  

     Si tratta dei versi di Domenico Milelli, della musica per pianoforte di Giovanni Rinaldi, della prima Bohème musicale italiana.

     Cominciamo dai versi riportati sul frontespizio dell’opera 74 del compositore di Reggiolo – quattro quartine di endecasillabi a rima alternata – che sono i seguenti: 

 

                  D’una campana i queruli rintocchi

                  Porta gemendo alla soffitta il vento:

                  La povera Mimì, schiudendo gli occhi,

                  Chiama Rodolfo in voce di lamento.

-         Sento, amico la morte … un bacio, e sia

                  Dell’amor nostro l’ultima parola …

                  Ed Ei – non dir così, dolcezza mia,

                  E il singhiozzo gli fa groppo alla gola.

-         Rodolfo, muoio … mi si rompe il petto,

                  Muoio – no, non lasciarmi angelo buono,

                  E, cadendo in ginocchio accanto al letto,

                  Egli alla sua Mimì chiede perdono.

                  E Mimì tace.  E cresce a poco a poco

                  Il rantolo: e i suoi moti allenta il core.

                  - Mimì, vivi, egli grida, e appena un fioco

                  T’amo, risponde la fanciulla, e muore.

     Emerge in queste quattro quartine – che La Morgia bolla come riecheggianti inflessioni canzonettistiche che sanno parecchio di esercitazione accademica – la catastasi della vicenda Rodolfo-Mimì.  La prima quartina "alza il sipario", introducendo subito nel dramma scenico, e più il pathos si fa stringente più si riducono gli elementi di dialogo tra i due amanti, mentre crescente è invece la rappresentazione dei loro gesti e movimenti: il cadere in ginocchio di lui, dopo il singhiozzo, è il tacere di lei proporzionato inversamente all’aumentare dell’agonìa.

     Una breve ma completa scena melodrammatica. 

     "Mimì, vivi"  grida Rodolfo a Mimì, a cui fa eco un fioco "T’amo" corrisposto a lui.

     "Versi mediocri, lacrimevoli addirittura, freddi, privi di arte e di poesia, se non brutti." Così li definisce La Morgia, che rimprovera allo scapigliato Domenico Milelli di essere scivolato nella ridondanza e di "gesto enfatico" caratteristico della produzione di alcuni scrittori della fine del secolo XIX.

    Ma chi era Domenico Milelli?

    Egli fu con Panzacchi, Mazzoni e Guerrieri, amico del Carducci e autore, poi, di un sonetto tra i più rancorosi scritto contro il poeta di Valdicastello, che accusò di tradimento dell’idea socialista. 

Caricatura di Carducci fatta da Milelli
Caricatura di Carducci fatta da Milelli
Insoddisfatto e perennemente privo di illusioni, vagabondò per mezza Italia sino a fermarsi, poverissimo, a Gallipoli.  Il suo stato doveva essere così pietoso da indurre amici di buon cuore quali Rapisardi, Graf e Cian a una raccolta di denari, alla quale volle partecipare lo stesso Carducci, che unì ai 10 soldi un mordace biglietto che suonava così: “Mando, non per Milelli che non merita nulla, ma per quei poveri figli che il Milelli non ha saputo educare.”

 

                                       Tu che venduta l’anima all’incanto

                                       Or godi e dormi come un buon borghese

                                       Eppur un giorno hai supplicato e pianto

                                       Per acciuffar un soldo a fine mese.

                                       Vile or tu gridi a chi d’angoscia

                                       I suoi ultimi giorni nutre e non s’affida

                                       Al tuo sistema di cambiar bandiera.

                                       Tienti il tuo tozzo, serbalo pe’ tuoi

                                       Perché all’ora dell’ultima disfida

                                       Vel possiate mangiare tutti in galera.

    Questa fu la risposta di Ivan Gratzinschky (pseudonimo di Milelli, usato nel  romanzo Fra Melitone di Bari) a Giosué Carducci. 

     Domenico Milelli si dimostrò uomo dallo spirito mordace, fu poeta, garibaldino, amato e amante di Evelina Cattermole Mancini, in arte Contessa Lara (poetessa rappresentativa dell’età decadente-umbertina, sempre alla ribalta della cronaca del tempo per gli scandali e per l’avventurosa vita, poi conclusasi tragicamente col suo assassinio a opera del pittore Giuseppe Pierantoni, artista di modesto talento che aveva illustrato il suo libro Romanzo della bambola.),   scrittore di buon spessore e politico impegnato.  Egli diresse per otto mesi Spartaco, vera palestra per le sue idee socialiste. Molti suoi articoli vi appaiono con la firma Conte di Lara, pseudonimo utilizzato anche per la sue edizione delle Rime. Milelli fu il fondatore del giornale letterario Il Salento, tra i cui collaboratori ci furono nomi di spicco, quali Mario Rapisardi, Ada Negri, Edmondo De Amicis, Grazia Deledda e Luigi Pirandello con la novella L’albero di fico.

    A Gallipoli completò il Kokodè, il Laocoonte e il Prometeo.

    Morì a Palermo nella notte tra il 22 e il 23 dicembre del 1905, povero come era sempre vissuto.

 

     Il compositore.

      Giovanni Rinaldi, un precursore dell’impressionismo musicale, nacque a Reggiolo, Reggio Emilia, il 27 dicembre del 1840 e morì a Genova il 25 marzo del 1895. 

Improvviso di Milelli
Improvviso di Milelli
Dopo i primi studi compiuti a Correggio, si perfezionò al Conservatorio di Milano con Francesco Sangalli (questi si dedicò esclusivamente all’insegnamento dopo la caduta scaligera della sua unica opera Alboino) e con Antonio Angeleri, quindi si trasferì a Genova, dove svolse attività di concertista e di compositore. Contribuì allo sviluppo del Classico Complesso Bandistico “G. Albergo” di Venosa, Potenza, riuscendo a formare un organico di circa 55 elementi, acquistando, grazie ai proventi delle esibizioni, strumenti (allora) costosissimi come il sax basso, il contrabbasso ad ancia, i timpani, allargando poi il repertorio sino al Boris.

      Fra le sue opere ricordiamo i pezzi per pianoforte: Fantasticherie, Sulle Alpi, Divagazioni pianistiche, Intermezzi, Sfumature, Pagine d’album, Nelle ore della sera, Cornamusa, Pifferata, Sorrisi di bimba, Spigliatezze, Bozzetti a matita, Novelletta, Il mio villaggio, A Lei, Riflessi e paesaggi.  E quello che ci interessa da vicino, cioè Da un romanzo (Povera Mimì!) op.74, edizioni Ricordi.

     La moglie Gioconda Anfossi fu anch’essa musicista e la figlia Ernesta (Genova,1880), allieva del padre, fu attiva come concertista e madre di quel Nino Rota  (l’ultimo dei grandi, morto a Roma nel 1979), che tanto ha onorato – e non solo con le musiche per films  (Il Gattopardo, Fellini 8 e mezzo, Rocco e i suoi fratelli, Roma città libera, Guerra e pace, La dolce vita e tante altre) -  la Musica, l’Italia e l’Europa tutta. 

    

     Dunque, Giovanni Rinaldi e la pagina pianistica Da un romanzo (Povera Mimì!) op. 74.

     Il compositore emiliano morì un anno prima che la Bohème di Puccini fosse rappresentata, dal che si deduce che spetta a Rinaldi, in Italia e anche fuori,  il merito di avere tradotto in musica la poetica e strappalacrime storia di Rodolfo e Mimì. 

     Pagina scritta per pianoforte, ma non puramente pianistica.  La Morgia lo deduce da due elementi: musicale e di linguaggio il primo; espressivo il secondo.  Conclusione: l’opera 74 è la "trascrizione" per pianoforte di un ideale duetto melodrammatico mai scritto.

Improvviso
Improvviso
Ma possiede una sua autonomia strutturale inequivocabile, pur nella sua frammentarietà e nei suoi non pochi momenti di arresto dell’interesse musicale, alla quale si aggiungono armonia, proporzione ed equilibrio.

     "Si procede su frasi melodiche e recitative che tradiscono un’intima e profonda esigenza di parola musicalmente intonata con tutta l’urgenza espressiva tipica del canto operistico di fine Ottocento."‘

 

    Giovanni Rinaldi è da indicare come il primo creatore di una Bohème musicale italiana, sia pure scritta per pianoforte.

 

    Non si possono né si debbono fare raffronti tra Puccini e Rinaldi.

  

 "Non lo faremmo neanche se fossimo persuasi della parità delle rispettive stature. E, lontano da noi, è pure il proposito di volere, con il rilevare tale priorità cronologica di Rinaldi su Puccini, ridurre il valore e la portata dell’opera del Maestro lucchese." specifica a chiari note Manlio La Morgia. 

 

      E io non posso che concordare con lui.  Ma a un paio di domande non ci saranno mai risposte: Come giudicò Puccini l’opera 74 di Rinaldi? E se in maniera positiva, ne rimase influenzato e, se sì, in quale misura? Tutto ciò rimarrà un vero mistero.