Un bisogno primario anima la scrittura di Massimo Carlotto. Si tratta della necessità di esorcizzare l’idea che non vi sia più alcuna forma di racconto possibile al di là della cronaca; in altre parole, della volontà di illuminare quella zona oscura che aleggia e serpeggia all’interno e all’esterno di quella pletora di immagini e descrizioni con cui le varie "cronache in diretta" le hanno consegnate alla nostra memoria mediatica e al nostro ricordo personale. Il tutto attraverso il ricorso, creativamente strumentale, al genere noir – al noir mediterraneo, in particolare – le cui convenzioni vengono piegate all’esigenza di proporre una riflessione di natura morale.

E questo bisogno si avverte con maggiore prepotenza nei romanzi estranei al ciclo dell’Alligatore, dove lo scrittore sardo-padovano abbandona le convenzioni della serialità e corrode fin dall’interno le regole del genere nell’intento di fornire una quanto mai efficace rappresentazione della caduta dell’umano all’interno di un contesto sociale, culturale ed economico malato e sempre in balia dell’imprevedibile. Si pensi, tanto per citare gli esiti più recenti del lavoro di Carlotto, alla "casalinga disperata" di Niente più niente al mondo, che, in seguito a un banale litigio, uccide a pugnalate la figlia ventenne, per la quale sognava un futuro da "letterina"’, secondo una parabola che la conduce dall’illusione della realtà, quale quella della tv dei reality alla realtà dell’illusione. Oppure all’Oscura immensità della morte, dove i meccanismi narrativi del noir, con lo sviluppo della trama affidato alla voce dei due protagonisti, conducono a una riflessione di stampo morale, mostrando la vita umana nella sua inquieta composizione di contraddizioni non negoziabili.

Analogamente, con il suo nuovo romanzo Carlotto riprende il genere della biografia criminale, del romanzo di crimine e prigione, ma per analizzare, attraverso la vicenda di un piccolo criminale e della sua disperata vitalità, i cambiamenti della società italiana, e della malavita in particolare, dagli anni Cinquanta a oggi.

La terra della mia anima è la "vera" storia di Beniamino Rossini, contrabbandiere, rapinatore, gentiluomo della malavita, che gli affezionati lettori della saga dell’Alligatore ben conoscono nella trasposizione romanzata. La spalla di Marco Buratti, infatti, non è un personaggio del tutto inventato, ma fondato sulla personalità, il fisico e le vicende biografiche di un uomo conosciuto da Carlotto durante la sua detenzione in carcere. Il "vero" Rossini è morto da poco, il 7 maggio 2006, stroncato da un tumore; le sue ceneri – leggiamo nel libro – "sono state disperse su una cima delle montagne del feltrino e sullo scoglio di Mangiabarche in Sardegna, secondo i suoi desideri". Il libro è il frutto delle conversazioni di Beniamino con l’amico Massimo, pronto a registrare avventure, amori e passioni di una vita da fuorilegge dagli esordi, negli anni Cinquanta, come “spallone”, cioè trasportatore di sacchi di sigarette di contrabbando lungo il confine italo-svizzero, ai traffici via mare fino alla detenzione, passando per il Libano, Malta, Venezia e la Croazia della guerra civile. Il tutto raccontato con una forte dose di autoironia in tre capitoli (il titolo di ognuno riprende versi tratti dalle canzoni di Ricky Gianco, colonna sonora ideale del romanzo), dove il racconto cronachistico in flashback, scritto con il consueto stile intenso, scorrevole e nervoso, a metà strada tra quotidiano e letteratura, viene interrotto da pause di riflessione, sottolineate dall’uso del corsivo. Sono queste le parti più struggenti del romanzo, dove Beniamino ripensa ai vari episodi di una vita vissuta pericolosamente, tutta di corsa, senza mai guardarsi indietro, a ciò che avrebbe potuto essere e non è stato: alla dolce Carmela abbandonata in attesa di suo figlio, al quale non ha mai confessato nei pochi incontri avuti con lui di essere suo padre, al matrimonio fallito con Sonia, alla travolgente passione per il transessuale Dalila, compagna di rapine, morta di AIDS, "l’unica persona del mio passato a cui ho portato un fiore sulla tomba". Ne deriva il ritratto di un uomo inquieto, alla continua ricerca della terra della sua anima, fuorilegge per libera scelta. Il crimine è l’unico strumento per sentirsi libero e vivo a disposizione di chi è animato dalla percezione di una perdita irrecuperabile e una inadeguatezza pervasiva e struggente: "vi assicuro – racconta Beniamino – che quando salii su quel motoscafo da contrabbando e diedi potenza ai motori mi sentii […] come un cavallo ribelle e indomabile che saltava il recinto e fuggiva nella prateria".

Ma La terra della mia anima è anche l’elegia dolente e commossa di una criminalità di vecchio stampo – sostanzialmente scomparsa a partire dagli anni Settanta – anche violenta, ma comunque dotata di un suo senso dell’onore e di una sua giustizia interiore, legata ad un’idea della “banda” "come una società di uomini liberi, egualitaria e con pari diritti nelle scelte e nei dividendi". Una criminalità sopraffatta dall’assalto della storia, travolta da quella ‘globalizzazione’ del crimine, che, secondo l’analisi di Bauman, dinanzi all’assenza di una “comunità politica globale”, capace di fissare regole “globalmente” vincolanti, ha annullato qualsiasi distinzione tra “legale” e “illegale”, dando luogo ai fenomeni del riciclaggio, delle ecomafie e del traffico d’armi. Stando al di fuori di questo contesto, i vecchi criminali come Beniamino sono dei "mutanti" sempre all’erta ("non dobbiamo farci scoprire altrimenti ci abbattono"), con la certezza disperata di essere dei sopravvissuti al disastro, obbligati, smarrita ogni sicurezza, a scoprire in sé la capacità di creare autonomamente i propri valori, magari cantando con Ricky Gianco: "nel futuro qualunque sia / non c’è niente da perdere / meglio un sogno da vivere / meglio una speranza, un’idea…"