Brian de Palma s’abbevera alla medesima fonte nella quale si ubriaca da sempre Ellroy. L’incontro tra i due era scritto. Femmes fatale, anime corrotte e intrecci casuali che legano vite apparentemente lontane: shakerate e servite il cocktail. Nella bruma patinata degli anni quaranta sfavillano labbra rosse e lustrini, si tessono relazioni, si sganciano pugni e si sognano sogni effimeri. Nessuno è risparmiato: si sporcano tutti di qualcosa che sia sangue, menzogna o gretta meschinità. Si parte dalle vicende del trio inziale: due ex pugili ora poliziotti/colleghi (Josh Hartnett e Aaron Eckart) e l’affascinante Kay, una tosta e marylineggiante Scarlett Johansson.
Va detto che se si cercano le medesime emozioni che il romanzo regalò, le ritroviamo in parte. Va detto che le suggestioni vi sono tutte. Va detto anche che da Mr De Palma ci si aspetta molto, almeno qualche zampata. E arriva: nello splendido piano sequenza centrale riesce a piazzare contemporaneamente tre snodi principali: la scoperta del corpo martoriato della Dalia Nera (attricetta di vane quanto morenti speranze, figura commovente attorno alla quale ruota la storia), una sparatoria e l’arrivo dei gangster.
Ritroviamo quanto di più amato del suo cinema nella scena in soggettiva durante la cena a casa della torbida, ricca e capricciosissima Madeleine (Hilary Swank, sublime trasformista) e la sequenza dell’assassinio del poliziotto forse coinvolto forse no, orchestrata nella tromba delle scale, è la firma che riconosceremmo ovunque.
Nota dolente: lo srotolarsi della trama s’imbroglia perdendosi in troppi nomi, personaggi e rivoli. Qualche scivolone nel melò eccessivo (la scena che ricalca l’erotismo di Il postino suona sempre due volte è superflua, come i flashback ossessivi nel finale) sbagli che sono lì a testimoniare l’incompiutezza dell’opera. James Ellroy ha apprezzato: anche noi. Solo i grandi sanno cadere magistralmente.
Daniela Losini
1947 Los Angeles. Due ex pugili, Bucky e Lee, divenuti poliziotti, indagano sul brutale omicidio di Betty Ann Short, un'ex prostituta e aspirante attrice soprannominata dai giornali Dalia Nera…
"Where have all the great directors gone?", cioè a dire "Dove sono finiti i grandi registi?". Bella domanda (per quanto retorica….)
Che passa il convento? L’adattamento per il grande schermo di uno dei romanzi di J. Ellroy. Con LA Confidential era andata bene, con la The Black Dahlia no.
Spento e monocorde, per quanto appaia a un’occhiata superficiale dinamico e mastodontico, piuttosto che scavare passa sopra, invece che appassionare respinge, anziché facilitare l’identificazione con un mondo che si immagina più vicino di quello che in realtà è (effetto memoria + effetto familiarità con i codici del noir…), porta da subito a pensare ad altro.
A dileguarsi dallo schermo è persino quella che fino a oggi era la cifra stilistica di De Palma, il piano sequenza, e più in generale il virtuosismo sempre spinto al massimo ma mai al punto da diventare fine a se stesso.
Qua non c’è traccia di nulla, e anche i due apici del film, il ritrovamento del corpo straziato della Dalia Nera (tra l’altro si capisce a scoppio ritardato perché mentre il cadavere viene scoperto in un campo da una donna che passa spingendo una carrozzina, nel frattempo al di là del tetto dell’edificio dove De Palma piazza la cinepresa, scoppia una sparatoria…), e l’omicidio su una scalinata di un personaggio per niente secondario della storia, lasciano il tempo che trovano (soprattutto il secondo fa rimpiangere la scena stazione + scale di Gli intoccabili).
Se il risultato delle scene clou è questo, figurarsi il resto, visto e stravisto, a iniziare dai flash-back rivelatori che in questo caso fanno tanto cattiva coscienza ("oddio…" si saranno detti "…qua nessuno ha capito niente della storia, corriamo ai ripari…"), per finire col poliziotto che tra il lusco e il brusco nel farsi giustizia da sé sputa nel piatto dove ha mangiato fino a un secondo prima.
"Where have all the great directors gone?"
Sergio Gualandi
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