Chirurgia invasiva è il titolo di un “pezzo” a firma della redazione di La Repubblica (01/09/06, pag. 25) in risposta al sequestro da parte della Procura della Repubblica di Brescia del computer di un giornalista della stessa Repubblica (Carlo Bonini) perché ritenuto in possesso di informazioni riservate sul caso di Abu Omar, l’imam rapito nel febbraio 2003, rapimento del quale sono accusati 26 uomini della CIA e 9 del Sismi.

A pensarci bene chirurgia invasiva potrebbe essere anche un sottotitolo immaginario di Time, il nuovo lavoro di Kim Ki-duk (di fatto l’apripista del cinema coreano qui da noi…).

Della chirurgia Time conserva il set che tutti conosciamo (i più sfortunati per averlo visto dal punto di vista del paziente, direttamente in sala operatoria…), e che prevede chirurgo, bisturi, sangue, anestesia, punti sulla carne, cicatrici.

Sull’invasività occorre invece mettersi d’accordo perché se a prima vista Time si occupa  di chirurgia estetica (anche…), è quanto mai inutile pensare che ciò che accade al soma, alla superficie quindi, non sia in grado di aprirsi a piacimento una strada fin verso quelle zone dove il soma lascia il posto all’immateriale, dove a contare non è tanto la pelle quanto i pensieri.

In Time il soma è perlomeno tre cose:

1. un modo di presentarsi (di apparire quindi…);

2. una gabbia quanto mai angusta e che in quanto tale impone limiti ben precisi;

3. una certa quantità di pelle, grasso, muscoli, da modellare e rimodellare a piacimento.

 

Quando la prima cosa inizia a scricchiolare, perché inutile girarci intorno è da lì che vengono i problemi, è da quel crinale che Seh-hee e Ji-woo, la coppia al centro del film, inizia a rotolare ("lo so, ti stai stancando della mia faccia…" dice Seh-hee a Ji-woo, e intanto giù scenate di gelosia), non rimane altro da fare che precipitarsi in un centro di chirurgia estetica per farsi rimodellare le coordinate fisiche così da evadere dalla gabbia, diventando qualcosa di diverso da ciò che si era, possibilmente fino al punto di non ritorno, quello cioè dove anche il riconoscimento da parte dell’altro diventa mera ipotesi.

 

Riguardo invece a quella zona dove a dettar legge non è il corpo ma le fantasie, l’intervento estetico ha come risultato quello di determinare oscillazioni, più o meno ampie, del senso stesso di identità, cioè il potersi riconoscersi ancora come se stessi. Ne segue che uno dei quesiti del film, una volta costatato che dopo l’intervento Seh-hee è divenuta irriconoscibile per Ji-woo, è il seguente: se non siamo più in grado di riconoscere noi stessi, come aspettarsi che siano gli altri a riconoscerci? Oppure: se per primi gli altri non ci riconoscono, come fare a riconoscerci da soli?

Altra questione: se il bisturi finito il lavoro sottrae per un poco il soma a quel tempo che di lì a breve riprenderà implacabile il suo lavoro di smantellamento, cosa fare di questo tempo artificialmente guadagnato?

Ammesso e non concesso che Time ponga sul serio le questioni appena elencate (così come ritiene chi scrive…), quelle appena elencate sembrano essere le classiche domande sulla quale è destinato a giocarsi il risultato del film intero.

Certo è che Time, perlomeno come intenzioni e messa in scena, sta una spanna anzi due, sopra a tutti (forse solo Bombòn - El perro di Sorin gli è superiore…), ma a chi gioverebbe passare sotto silenzio le pause e le incertezze che gli impediscono quella coerenza complessiva che contraddistingue i film riusciti?

Di fronte alla forza delle questioni sollevate non sempre corrisponde un’identica energia nelle risposte. Il problema sembra essere l’approccio, stavolta troppo intellettuale, cervellotico, che non si addice al nostro, solitamente regista scevro dai contorcimenti tira e molla che tanto piacciono a quei registi che scambiano volentieri la fuffa intellettuale con le immagini pure e dure.

Tant’è, così va il mondo (e il cinema), ed ecco allora Time barcamenarsi tra materiali poco affini tra loro: da un lato le immagini che come sempre non mancano mai nei film di Kim Ki-duk (la donna e l’uomo bendati dopo gli interventi, più ectoplasmi che esseri umani in carne ed ossa, oppure la suggestiva location del museo di statue all’aperto), dall’altro le eccessive ripetizioni (di luoghi e situazioni), i dialoghi che suonano un po’ a vuoto, il tutto unito ad una direzione degli attori che stavolta, stranamente, segna il passo.

Comunque sia Time rimane con Face/Off e Inseparabili uno di quei film in grado di dire qualcosa sul tema dell’identità, a volte questa sconosciuta.