Sporcarsi con la notte era il loro passatempo preferito; di giorno, tutto sembrava alienante, ma ogni notte era una scorribanda in compagnia dell’alcool. Unica regola, una frase affiorata sulle labbra di Thyco una mattina, nei sotterranei del supermercato: disintossicarsi dalle parole, dalle immagini, dalla musica, dalle persone, per trovare se stessi. E subito a Giles era balenata l’idea che l’unica vera disintossicazione possibile era il viaggio nell’alcool. Due diciassettenni non potevano chiedere di meglio.
Ora giacevano a terra, non lontani dal marciapiede, bottiglie vuote accatastate sul prato, una lattina che rotolava giù, sulla strada. Thyco si grattò un’ascella come per scacciare le pulci, poi si voltò di schiena rannicchiandosi accanto all’amico, per far riposare la testa. Giles era sdraiato supino accanto a lui, le braccia piegate con i palmi uniti dietro la nuca, gli occhi rivolti al cielo ma lo sguardo altrove, perso nell’oscillazione dell’insonnia.
“Forse dovremmo sfondare qualche farmacista e farci dare un po’ di pillole per dormire”, disse ad alta voce all’enorme creatura insonne che si agitava dentro di sé.
“Scherzi?”, fece Thyco senza voltarsi. “Il sonno è la profanazione dell’alcool”.
“Si, questo è vero”, rifletté Giles aggrottando le sopracciglia. “Però se non dormiamo almeno tre ore al giorno, finiremo per uscir fuori di testa. La città non è così stupida da lasciarsi annegare dalle nostre provocazioni”.
“Non preoccuparti”, lo tranquillizzò Thyco girandosi e toccandogli il torace con la mano. “La città ci conosce troppo bene per catturarci con i suoi denti affilati”.
“Mi hai convinto”, fece Giles scostando la mano dell’amico. “Entriamo in un pub: ottenere spirito non sarà difficile”.
Il locale era tutto un ronzìo di elettricità umana e musicale, una sorta di diagramma di una malattia psichica a cui i due reagirono chiudendo il centro nevralgico dei loro corpi, posto all’origine dei pensieri: la bocca dello stomaco. Intanto, il fegato già pregustava l’evasione di tutto quello spirito in festa dalle bottiglie.
Dopo aver afferrato per la vita un biondo mingherlino dietro il bancone, Giles cercò di trascinarlo nel bagno per convincerlo a trattare, mentre Thyco stava bene attento a che nessuno piantasse grane; in caso contrario, il suo coltello squartabalene avrebbe dettato legge. Il fegato continuava a nuotare vischioso di desiderio, pronto all’assalto immediato. E Giles tornò finalmente, carico di malloppo. Senza fiatare, i due presero la via per l’uscita e imboccandola, si guardarono soddisfatti.
Fuori, presero a correre ululando come pazzi, fino a stramazzare al suolo.
“Cazzo se funziona quella roba che ci hanno venduto a scuola!”, esclamò Giles ancora ridendo. “Butanzemina, Thyco”, disse piantandogli addosso due occhi annacquati dalla voglia di alcool. “Quello non se l’è fatto ripetere due volte”.
“Funziona sempre”, constatò Thyco con voce impercettibile, persa nell’aria profumata di verità. “Iniziamo la festa”, fece poi brandendo la busta con sguardo ammaliante.
Giles estrasse subito una bottiglia di Bourbon, ma Thyco lo interruppe sussurrando: “No, non adesso”. Rimise la bottiglia nella busta e sfilandone lentamente una di birra chiara disse: “Questa!”, spalancando gli occhi nell’atto di pronunciare la parola. La aprì con le chiavi e, innalzatala nell’aria come una nuova Excalibur, disse senza abbandonarla con lo sguardo:
“Il giallo è un lampo, un’interruzione, tra la spirituale continuità del blu che è noi e la sensualità ribollente del rosso che è vino. È un oceano che separa”. Abbassò il braccio e con entrambe le mani, come un moderno calice del Graal, porse la bottiglia a Giles. “Bevi ora”. lo esortò.
Giles lasciò la schiuma viva scorrergli sulla bocca, fino a sentire la carne bruciarsi in gola. Ogni nuova colata di birra era un catapultarsi cieco verso la purificazione.
“Ah! Come sto bene”, emise con un gemito di piacere. “È proprio vero”, meditò poi stendendosi supino sull’erba. “Si può conoscere soltanto ciò che si ama, e io amo l’alcool. Amo la dimensione che abito quando sono fatto d’alcool”.
“Sì”, sospirò Thyco posandosi accanto a lui, prono. “La conoscenza fa paura perché comporta l’autodistruzione, o la distruzione di qualcun altro. Ma è necessaria”.
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