Non lo aveva ammazzato per una questione di soldi, no! Gli aveva detto che lui la casa se la sarebbe costruita dove gli pareva, ché i terreni erano i suoi e che lui non avrebbe potuto farci niente.
E Lovico Todde gli aveva risposto di sì.
- Mere! Padronissimo! - gli aveva risposto, ma aveva pure fatto la faccia storta, come per dire: "Bah, chissà!"
Gonario Soddu a quel punto non ci aveva visto più: l'aveva preso per il colletto. Lovico Todde non era alto, e a Gonario arrivava appena alla spalla, ma era tozzo, raccolto nei muscoli, eppure aveva lasciato perdere, s'era lasciato tirare su.
- Che hai? - aveva detto Gonario.
- Nudda!
Lui lo aveva scrollato.
- Lì, proprio lì? - aveva fatto Lovico.
- Che vuoi dire? - gli aveva gridato in faccia Gonario. - Che vuoi dire? - Sapeva che Lovico su quei terreni aveva pretese antiche, storia vecchia, anzi vecchissima, che risaliva addirittura ai tempi dell'editto delle chiudende, anno 1820.
"Tancas serradas a muru/ fattas a s'afferra afferra/ si su chelu in terra/ l'haian serradu puru!"
Eh, sì! Se avesse potuto dentro quattro muri avrebbe chiuso pure il cielo. E Lovico non avrebbe potuto niente! Niente! E niente gli poteva per quei terreni: chiusura in regola. A suo tempo quei muri a secco erano stati tirati su dalla sua famiglia coi crismi della legge e quei terreni erano perciò diventati di loro proprietà in tutto e per tutto, niente da dire e, soprattutto, niente da fare. Avevano chiuso la sorgente d'acqua, embé? Sarebbe bastato che Lovico Todde gli chiedesse il permesso, così come si faceva da quasi duecento anni. Lui non glielo avrebbe mai negato. Mai! Ma quello no! quell'ultimo discendente dei Todde pareva proprio non capirlo, era un cocciuto, un impertinente.
- Che pretendi? - gli aveva allora gridato contro Gonario Soddu.
Ed era tornato a scrollarlo. E quello s'era allora offeso: non era stato per la questione dei terreni, adesso. Non più. Aveva tirato fuori la leppa e gliela aveva puntata contro la pancia.
- Mi basta fare un po' di pressione - aveva detto, - intesu asa?
Ma lui non s'era impressionato: aveva spintonato Lovico tenendolo ancora per il colletto e quello aveva annaspato prima di cadere all'indietro, poi aveva sbattuto il capo contro lo spigolo del computer: il sangue era colato, vischioso, dal video alla tastiera, macchiando alcuni tasti.
- E' quello che capita a chi mi si mette contro! - aveva detto Gonario, sistemandosi la cravatta. Ma Lovico Todde era morto: piegato in due, seduto per terra, la testa china sul petto.
Gonario Soddu nemmeno questa volta s'era preoccupato: aveva messo la questione in mano ai suoi avvocati che, in qualche modo, l'avevano tirato fuori.
Dopo, aveva cominciato a tirare su la casa: le fondamenta, le mura perimetrali, gli interni, e tutto quanto. L'arredò e ci fece portare pure il computer contro il quale Lovico aveva sbattuto il capo. Prima, però, l'aveva fatto pulire per benino, che a lui quel sangue rappreso aveva fatto schifo. Ma sulla tastiera erano rimaste delle macchioline. Le guardò con un senso di disgusto. "Dialu" s'era detto, "neanche a pulirle sono stati capaci!". Con la donna delle pulizie si sarebbe fatto sentire. Eccome!
Fece per voltarsi, poi ci ripensò: tornò a guardare i tasti sporchi. Si avvicinò: Q U I O S N! Qualcosa gli diceva che avrebbe dovuto trascrivere quelle lettere da qualche parte. Glielo diceva forte in testa. Prese carta e penna e le ricopiò. Ci ragionò.
Quiosn! Quiosn! Quiosn! Quison! Qui son! Qui sono!
Restò fermo, guardò il video: fece per accendere il computer. E nel momento stesso in cui si piegò per farlo, si rese conto che non avrebbe dovuto farlo!
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