David Goodis nasce nel 1917 a Filadelfia, quattordici anni dopo un altro maestro del noir, Cornell Woolrich. Come Woolrich, vive al margine, facendo il possibile e l’impossibile per passare inosservato. Lo hanno descritto come un bello e dannato, alcolizzato, barbone che si aggira di notte per i bassifondi e i vicoli della sua città. Altri lo hanno descritto come un eccentrico, solitario, tirchio e addirittura astemio. Ma per lo più queste descrizioni sono romanzate. Certo, Goodis era un bambino mai cresciuto che a quarant’anni, come Woolrich, viveva ancora con la madre. Morì nel 1967, un anno dopo la madre, a quarantanove anni, nella totale indifferenza.

Se Woolrich è il cantore dell’angoscia, possiamo affermare che Goodis è quello del fallimento, come dimostrano i titoli dei suoi romanzi: Street of No Return, Street of the Lost, Down There, The Wounded and the Slain, Dark Passage. Anche la parola nero viene usata nei titoli dei suoi romanzi: Black Friday, Black Pudding. I suoi personaggi sono spesso persone socialmente degradate, alle quali non è data nessuna possibilità di salvezza se non l’oblio tra le ombre:

“Era giunto nel Quartiere Malfamato sette anni prima, comparendo dal nulla come tutte quelle altre ombre a due gambe. Con fatica, e non senza arrancare, aveva fatto il suo ingresso in quel mondo per assicurarsi un posto alle mense dei poveri che stavano fuori dalle missioni, e aggiungersi a quell’assurda parata di larve umane che circo

lavano su e giù per River Street. Senza niente in tasca, e nessuna espressione negli occhi, si era arruolato nella società poco invidiabile degli sbandati e dei derelitti, gettandosi su ogni vecchio materasso che gli capitasse a tiro, mangiando qualsiasi cibo che potesse scroccare, mettendosi addosso ogni sorta di straccio che raccattava qua e là.” [1]

 

E all’interno di questa strada senza ritorno i suoi personaggi ci finiscono quasi per caso, a volte senza rendersene conto, terminando la loro vita in un luogo tipico dei romanzi e racconti di Goodis: il vicolo. Ricettacolo e asilo di tutte le disperazioni, il vicolo diventa simbolo del mondo che si prende gioco dei semplici, è la parte più nascosta della città, della metropoli che avvilisce tutti, che aspetta la preda per schiacciarla:

“Era come una voce che gli sussurrasse che il Quartiere Malfamato non era poi il luogo ideale per nascondersi. Era quel tipo di posto che si prendeva costantemente gioco di un povero sempliciotto. Il vagabondo faceva del suo meglio per rifuggire da ogni contatto col mondo, ma in un modo o nell’altro il mondo riusciva sempre a farsi sentire. Il mondo continuava a gettare l’esca finchè qualcuno non abboccava, e prima o dopo, inevitabilmente, l’amo incontrava la sua preda e la lenza veniva tirata su.” [2] 

 

E la preda è quasi sempre un uomo semplice, per non dire banale, che non possiede un fisico “grazie al quale superare le difficoltà”, con poche aspirazioni tranne quella di una vita tranquilla accanto ad una donna innamorata. Questo è il tipico personaggio di Goodis il quale, spinto da un destino avverso, si ritrova a fare il vagabondo, l’alcolizzato, spesso con un passato coronato di successi, che pesa come un macigno sul presente.

Mogli che inveiscono contro i mariti inetti; poliziotti corrotti e paranoici che non si differenziano dai criminali a cui danno la caccia. Tipiche di Goodis sono le donne grasse, donne che “da tempo hanno perso le forme assieme alle speranze” e che non si tirano indietro se si deve menare le mani, scene che Goodis descrive nei minimi particolari:

 

“Si drizzò sullo schienale. Tentò pian piano di raggiungere la maniglia della portiera, ma Berta se ne accorse. Gli afferrò una ciocca di capelli con una mano e con l’altra gli piazzò un potente colpo sulla guancia, proprio sotto l’occhio. Tentò ancora di abbrancarsi alla maniglia e lei lo colpì di nuovo nello stesso punto. Si chiese se gli avesse fratturato lo zigomo. Poi riprese ad armeggiare, mentre Berta continuava a tirargli i capelli e a colpirlo in faccia. […]

Gli assestò un terribile fendente sulla guancia già colpita, poi mirò alla bocca e lasciò partire un destro corto e potente che gli fece uscire i denti dagli alveoli. Sentì che due denti gli rotolavano sulla lingua. Li sputò, cercando di voltare la testa per guardare Berta, ma non riusciva a muoverla perché la donna continuava a tirargli i capelli. Il cuoio capelluto gli doleva ancora più della guancia e della bocca. “Non può essere una donna” pensava “sembra fatta di ferro”.

Proprio in quel momento, la donna lasciò partire un altro colpo. Un’autentica mazzata. Glielo scaricò addosso con tutta la forza che aveva, dietro cui stavano centocinquanta chili di carne ben pressata. Il colpo gli fece cadere diversi altri denti e gli ruppe la mandibola. Cominciò a perdere i sensi, anche se cercava di resistere.” [3]

Una scena molto forte, un pestaggio subito da Whitey, il protagonista di Strada senza ritorno, un cantante pronto a lanciarsi verso una sfolgorante carriera. Ma il cinismo di Berta e di Goodis non poteva finire in un semplice pestaggio, ma va ben oltre, togliendo a Whitney il cantante la cosa per lui più preziosa:

“Ora stai bene attento” continuò Berta. Teneva il manganello da entrambe le estremità.

“Voglio fare un altro tentativo. Voglio dirti quello che ti capiterà se non fai il bravo bambino. Sarà brutto, figliolo. Questa volta mirerò alla gola.”

Si avvicinò e cominciò a solleticargli la gola con l’indice. “Proprio qui” disse. “Farai la fine di un giradischi tutto scassato. E questo sarà davvero il colpo di grazia, non ti pare? Sharkey ci ha detto che sei un cantante famoso, che ti vogliono nei locali notturni, alla radio, che vendi dischi a vagonate. E tu non vuoi perdere tutto questo, vero?”[…]

Mentre ascoltava le parole di Chop, vide partire il manganello, sembrava qualcosa di vivo e luccicante che gli azzannasse la gola. Fu colpito più volte e sentì che i tessuti si laceravano in un ribollimento generale, tanto più forte quanto più gli sembrava di vedere la bava schiumante della materia rossastra che esplodeva in mille pezzettini.” [4]

Una donna senza pietà, come senza pietà è il noir. Qui non c’è la speranza di un riscatto, la speranza nella giustizia o almeno di una vendetta. Qui non c’è speranza. Quella speranza che Chandler e gli autori di hard-boiled avevano acceso anche nel peggiore dei mondi, dove avevano fatto transitare l’investigatore-paladino della giustizia contro i mali della società. Nel noir, nei mondi di Goodis, la fiaccola della speranza è spenta. I finali sono tutti senza lieto fine, senza possibilità di lieto fine:

 

“Il marciapiede era terribilmente freddo e il vento umido che veniva dal fiume saettava nei loro volti. Ma la cosa non aveva la minima importanza. Se ne stavano seduti là, continuando a passarsi la bottiglia di mano in mano, e non c’era più niente che importasse, ormai. Proprio niente.” [5]

 

“Avrebbe voluto farle comprendere che anche lui desiderava portarla via, ma non poteva perché adesso gli era impossibile provare la sua innocenza e avrebbero dovuto sempre fuggire, e se anche la strada era larga, era però buia e aspra e senza alcuna certezza.” [6] 

E questo universo senza riscatto è accompagnato da un sottofondo musicale triste, fatto di sax e pianoforte, da una tromba che echeggia tra i tavoli di un night club, in altre parole il jazz. Sì, perché la musica, e in particolare il jazz, e quasi una presenza costante nei romanzi di Goodis e nel noir in generale. Protagonisti dei romanzi di

Goodis sono spesso musicisti falliti come Whitney di Street of no return o Edward Webster Lynn di Down There ai quali solo la musica può donare qualche attimo di dimenticanza, di riconciliazione con se stesso. Musica che ha il potere di far dimenticare la tristezza del “fottutissimo mondo”:

“Avevi una voce che sembrava provenire dalle altezze della luna, dicevano, o dalle profondità del mare. Si alzava di tono e si abbassava, poi si rialzava nuovamente. Una voce che tirava su anche te, quando la sentivi. Era come se potesse farti diventare completamente triste e felice, ma sempre elevandoti; e allora non ti restava altro che chiudere gli occhi, chiudere gli occhi senza più badare a questo fottutissimo mondo, solo restartene seduto ad ascoltare quella voce.” [7]

Non solo musica suonata dal vivo ma anche un disco, di quelli in vinile appoggiati lentamente sul grammofono, posando delicatamente la puntina sui primi solchi che producono fruscii all’inizio del brano:

 

“Mentre la ragazza si dava da fare in cucina, lui fece suonare il grammofono. Ascoltava la musica pensando che era molto ricco, con mille e ottocento

dollari in tasca e una nuova faccia. Quando il primo disco arrivò alla fine, ne mise su un altro e continuò a suonare finchè Irene non gli annunciò che era pronto.” [8]

O semplicemente accendendo la radio può partire un’orchestrina che suona jazz, un jazz nero come la notte:

 

“Father schiacciò il tasto della radio. Un’orchestra jazz suonava un ballabile ben ritmato, con un assolo di sax accompagnato dal piano. Il pianista era in gamba. 

Niente male, pensò Eddie. – E’ sicuramente Bud Powell!” [9]

[1] David Goodis, Strada senza ritorno, Mondadori, Milano, 2000, pag. 11. (Ed. orig.: David Goodis, Street of no Return, Fawcett, New York, 1954).

[2] ivi, pag. 18.

[3] ivi, pp. 124-125.

[4] ivi, pp. 130-131.

[5] ivi, pp. 252.

[6] David Goodis, Giungla umana, Mondadori, Milano, 1960, pag. 134. (Ed. orig.: David Goodis, Dark Passage, Messner, New York, 1946).

[7] David Goodis, Strada senza ritorno, op. cit., pp. 74.

[8] David Goodis, Giungla umana, op. cit., pag. 97.

[9] David Goodis, Non sparate sul pianista, Ponzoni, Milano, 1959. (Ed. Orig.: David Goodis, Down There, Fawcett, New York, 1956)