- Signor Direttore, mia moglie è in cassa integrazione, la bambina è malata e non ce la facciamo più col mio stipendio, la prego, mi conceda un aumento…-
Il Direttore, arcigno, solito avana tra i denti, squassa la scrivania col palmo delle mani, si alza d’impeto, sdegnato:
- Basta così! Se ne vada! Incapace! -
L’omino incassa la testa nelle spalle, abbassa gli occhi lacrimosi e si trascina via penosamente.
L'altro si scosta per farlo passare e accartoccia di nuovo in tasca il suo modulo malridotto. Il Direttore lo vede e distende il grugno in un sorriso:
- Ah, venga, lei sì che mi dà delle soddisfazioni!
L’ometto avanza incerto e gli consegna la pratica. Il Direttore siede, legge, annuisce e s’accende l’avana, che l’avvolge in una inquietante nube blu.
- Bravo, un ottimo lavoro! Il cliente, prima di tutto!
L’ometto china la testa per nascondere un accenno di modesto sorriso, ci ripensa e fa per tirare fuori dalla tasca il suo modulo cincischiato.
- Ah, questi servitori ingrati, sempre più esosi… — brontola il capo.
L'ometto rimette il modulo in tasca.
- …ma devo pregarla di dedicarsi subito a quest’altra pratica, urgentissima!
gli tuona addosso il Direttore allungandogli un’altra cartellina. Rossa, stavolta. Abbassa la voce, grave:
- È una pratica interna, una questione disciplinare. Conto nella sua riservatezza, come sempre.
Lo congeda con un gesto solenne, definitivo. L’ometto prende delicatamente la pratica, guardandola preoccupato. Ma lo sguardo del Direttore non ammette repliche. Esce.
Di nuovo nel suo ufficio, l’ometto fissa a lungo la cartellina rossa, in copertina non c’è nessun numero, nulla.
Infine sospira e l’apre. Dentro solo una foto. Un’occhiata sorpresa.
Richiude subito.
Chiude anche gli occhi, ha un brivido, poi sospira ancora, rassegnato, ributta nel cestino il modulo dell’aumento accartocciato, si alza e segue la stessa procedura di prima, ma con sofferenza: armadio, manuali, consultazioni, appunti. Richiude la pratica nello stesso cassetto, si rassetta e ricomincia.
Emerge dal TRUCCO e dai COSTUMI che sembra Coluche in grunge, liso, sporco, ispido e livido, i denti scuriti. Un barbone.
Allo sportello del Salone quello davanti a lui, elegantissimo come Bond, preleva e controlla una valigetta chic con pistola, silenziatore e munizioni; poi tocca a lui. Ritira una bottiglia di birra scura e un flaconcino di pillole. Mentre firma il registro, l’uomo allo sportello gli concede un’occhiata di schifato consenso. Mette tutto nelle tasche sformate, attraversa lo stanzone e s’infila nella porta del PUB.
Si ritrova nel retro del locale, zeppo di casse, bottiglie di birra vuote, bidoni e pattumiere; si versa addosso la scolatura delle bottiglie usate, entra nel bar, lo attraversa, scambia un’occhiata d’intesa col barista, che sembra percepire la sua puzza mentre gli passa una birra infima, già aperta. Lui la impugna malamente, trangugia un sorso, se lo sciacqua bene in bocca, assume un passo incerto, strascicato, barcollante ed esce in strada. Ora è un barbone ubriaco.
Si aggira un po’ tra la gente che lo scansa in fretta, poi avvista i due segugi che ciondolano ancora lì intorno. Li avvicina e chiede da fumare con le dita a V davanti alla bocca. Rutta. I due lo guardano disgustati e s'allontanano, turandosi il naso. L'ometto ghigna soddisfatto e va a barcollare più in là.
Aspetta, avvinghiato ad un palo. Fa davvero pena, a vederlo con la bottiglia in mano.
Finalmente dal palazzo del suo ufficio esce il collega triste, che s’allontana a testa bassa, come un cane bastonato. Lo segue.
Lungo strade sempre meno affollate, verso i bassifondi.
I due rasentano ora il muro d’un vicolo dimenticato dalla nettezza urbana, dove un barbone vero rovista nei cassonetti strapieni e un tossico si buca.
L’omino triste s’infila in una bettola. L’ometto camuffato che lo tallona fa lo stesso.
Dentro, un’umanità derelitta ciondola brontolando fra il banco e i tavolini di formica scheggiata, tra bicchieri e bottiglie d’incerti liquidi, in una nebbia densa di cicche e mezzi toscani.
Da qualche parte viene l'eco di un dixie triste.
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