Da settimane Enrico lavorava su un quadro senza riuscire a finirlo. Insoddisfatto, continuava a ritoccarlo per esprimere compiutamente l'idea del soggetto che lo affascinava: un uomo fermo davanti ad un grande specchio ovale che rifletteva la stanza ma non l'immagine di lui. L'uomo fissava lo specchio con uno sguardo carico di stupore e di angoscia: l'assenza della sua immagine era un presagio di morte.

Per Enrico, terminare il quadro era diventata un’ossessione, tanto da cambiare le sue radicate abitudini. Arrivava nello studio - uno stanzone all'ultimo piano di un vecchio palazzo, con un’immensa vetrata affacciata sui tetti - alle nove del mattino e vi restava fino a notte inoltrata. La moglie aveva protestato poi, come il solito, si era arresa all'idea di non vederlo per tutto il giorno: quando lavorava, Enrico non faceva entrare nessuno nello studio, neanche lei. Per ore restava solo nella stanza piena di quadri, di pennelli e dell'odore di vernici, in compagnia del ronfare quieto del gatto addormentato su una poltrona.

Lui non aveva mai voluto possedere un cellulare e sperava di resistere alla tentazione di martellanti pubblicità. Unico mezzo di comunicazione con il mondo esterno era il telefono, un vecchio modello, posto su un tavolino piccolo e sgangherato Una sera, Enrico si sorprese a pensare che non aveva mai chiamato il numero dello studio, tanto nessuno avrebbe potuto rispondere.

Il giorno successivo, mentre si trovava nel bar vicino allo studio, per bere il caffè amaro che era solito prendere alle sei di sera, fu colto di nuovo da quella strana idea ed avvertì il desiderio di comporre il suo numero. Un desiderio irrazionale di sentire il telefono squillare a vuoto nella solitudine della stanza. Compose il numero, ascoltò con piacere il telefono squillare, per tre volte, fece per riattaccare ma proprio in quel momento sentì il suono del ricevitore quando è sollevato, allora riportò velocemente la cornetta all'orecchio e sentì una voce sussurrare: "Pronto..."

Stupito, Enrico rimase per un attimo in silenzio, senza fiato, quindi riuscì a chiedere: "Chi parla?" ma dall'altra parte non ci fu risposta, allora lui ripeté la domanda a voce più alta - troppo alta, quasi stridula - ma non ottenne che silenzio. Allora riagganciò, con forza. Per tentare di calmarsi pensò di aver sbagliato numero. Infilò di nuovo nella fessura la carta telefonica poi lentamente, con molta attenzione, ricompose il numero, emozionato ascoltò il trillo prolungato degli squilli, ancora una volta tre, al quarto il rumore del ricevitore distaccato e la stessa voce di prima, la voce di un uomo, ripetere il suo fioco e stanco: "Pronto".

Enrico non rispose, riagganciò e di corsa uscì dal bar: qualcuno doveva essere entrato nel suo studio. Si arrampicò per le scale velocemente, facendo i gradini quattro a quattro, come una volta, quando era ragazzo. Davanti alla porta, riprese fiato, notando che era chiusa e non mostrava segni di effrazione. Origliò ma non sentì alcun rumore provenire dall'interno. Con cautela aprì la porta, quel tanto che gli permise di gettare uno sguardo nella stanza: non c'era nessuno.

Enrico tirò un sospiro di sollievo e si accese una sigaretta, fissando l'apparecchio telefonico, causa di tanta apprensione, con l'impulso di scaraventarlo a terra. Tanta paura per un semplice contatto.

Placato da questa spiegazione logica, si distese sulla poltrona almeno per una volta non occupata dal gatto, sicuramente in giro sui tetti, e si guardò intorno: nella stanza non c'erano segni tangibili dell'irruzione di qualcuno ma qualcosa era cambiato.

La stanza, divisa in rivoli d'ombre dalla luce frantumata del tramonto, appariva diversa, come segnata dalla presenza di qualcuno che l'aveva abbandonata in fretta. Lasciando però dietro di sé una scia, come un profumo. Si avvertiva ancora questa presenza strana, invisibile.

Enrico sorrise al pensiero di un fantasma, un fantasma parlante al telefono. Ricordò la voce fioca, remota, sfinita, difficile da attribuire ad un essere concreto. Lo sguardo gli cadde sul quadro appeso sul cavalletto: l'uomo dipinto continuava a fissare lo specchio ovale che restituiva frammenti dell'ambiente ma non la sua immagine. Enrico balzò in piedi, facendo gemere dolorosamente la poltrona, e si avvicinò al quadro: nello specchio si rifletteva un telefono posato sopra un piccolo tavolo. Lui non ricordava di aver dipinto il particolare del telefono, contemplò l’apparecchio dipinto con stupore. Lo stesso stupore impresso sul volto dell'uomo raffigurato nel quadro. Un volto magro, con occhi sperduti anche se ancora non disperati e con un'ombra di sorriso infantile sulle labbra. La voce, quella voce, si addiceva a quel volto, aveva la stessa fragile esilità. Enrico spostò lentamente lo sguardo dal volto dell'uomo verso lo specchio ovale, con la speranza di non rivedere la sagoma nera del telefono: l'apparecchio invece era sempre lì, sul ripiano del tavolino, anche se lui non ricordava di averlo dipinto.