Il rombo degli otto cilindri rimbalzò contro le facciate inerti. C’era stato un tempo in cui Hendra sobbalzava a ogni suono, ogni scricchiolìo, ogni vibrazione. Anche quel tempo era finito. Dissolto nel nulla come il padrone dei pit-bulls, i vini della Loire, la Teoria della Relatività Generale. E molti miliardi di miliardi di memorie.
In questo tempo, Hendra Wilson aveva imparato a conoscere tutte le increspature del silenzio. Tutte le sfumature del vuoto. E tutti i colori del buio.
In questo tempo, non c’era nessuno a New York, New York.
Non c’era nessuno nemmeno da nessun’altra parte.
Anche lo specchio dell’ascensore ultrarapido dell’Hotel Pierre, il più esclusivo degli alberghi a cinque stelle di New York, New York, cominciava a vaiolarsi. Dalla cornice di acciaio cromato, lebbra silicea si dilatava a tutta la superficie riflettente.
Hendra si tolse i guanti, sentendo la cabina rallentare. Distolse lo sguardo dalla propria immagine. Non era il momento per un altro specchio. Non ancora. Le porte automatiche si aprirono sul penthouse del Pierre, cinquecento metri quadrati, perfetto plasma strutturale e stilistico, tutto il meglio di Architectural Digest.
Hendra lasciò cadere lo zaino su uno dei due divani di pelle nera frontali uno all’altro. Attraversò tutto l’open-space del soggiorno. Uscì sulla terrazza occidentale. Studiò la vastità di Central Park, un rettangolo di pura jungla circondato da cordigliere di cemento. Un altro predatore, molto più grosso, molto più micidiale dei pit-bulls, ruggì in distanza. Forse una pantera nera, forse una tigre siberiana. Molto tempo prima, qualcuno, chissà chi, spinto da chissà quale impulso, aveva aperto le gabbie del New York Zoo. Da Dickman Street, nella parte settentrionale di Manhattan, gli animali selvaggi avevano seguito il loro istinto fino a raggiungere quello che più si avvicinava al loro habitat originario. Là erano rimasti. Non si spingevano mai sull’asfalto. Quello rimaneva il dominio dei cani e dei gatti ritornati all’orda.
Le mani di Hendra si contrassero attorno alla balaustra. Erano state mani dalle dita lunghe, modellate, decisamente sensuali. Estée Lauder e Revlon avevano pagato vere e proprie fortune per potere fotografare quelle mani assieme alle loro infinite soluzioni cosmetiche per l’eterna giovinezza. Adesso le mani di Hendra erano utensili duri, ossuti, coperti di calli, segnati da piccole cicatrici. Mani in grado d’impugnare armi da fuoco, rimettere in funzione gruppi elettrogeni, collegare circuiti elettrici ad alto voltaggio. Le mani di qualcuno aveva imparato a difendersi dall’orda. E da tutto il resto dell’universo.
Hendra spostò lo sguardo sul sole al tramonto, un enorme, ellittico occhio rosso già perforato dalle guglie scalene dei grattacieli che sorgevano lungo Central Park West. Tra non molto, sarebbe calata la notte.
E con la notte, sarebbe arrivata l’ora della cerimonia.
L’aroma dell’eucalyptus fluttava nella stanza da bagno piena di specchi, illuminata da decine di candele. Pareva un filtro magico di incantesimi perduti.
Hendra mandò giù con un secco movimento del capo le ultime gocce del gin liscio. Si impose di strapparsi all’abbraccio dell’acqua diventata fredda. Scivolò fuori dalla grande vasca ellittica. Senza asciugarsi, rimase immobile di fronte a una delle molte, troppe superfici riflettenti del penthouse.
Un esplosivo, stimolante, sorprendente, eccitante metro e ottanquattro di trasgressione dei canoni della bellezza classica. Definizione di Vanity Fair, ultima cover-story prima del grande buio. A Hendra non era mai stato chiaro che cosa esattamente bellezza classica significasse. In compenso, aveva sempre saputo tutto quello che c’era da sapere in materia di trasgressioni.
La luce tremolante delle candele disegnò la sua definita muscolatura addominale, i bicipiti che scattavano sotto la pelle abbronzata, i seni alti ed eretti. Lentamente, portò le dita della sinistra a sfiorare le rughe che si disegnavano attorno ai suoi occhi, simili a esili, definiti tagli lasciati dal bisturi del tempo.
Tempo: anni. Dieci anni.
Scelse Versace.
In nero. Un classico. Non poteva esistere nessun’altro colore per la cerimonia. Un tubino di seta, lungo al polpaccio, scollatura simmetrica. Avrebbe preferito Armani. Solo che la donna perfetta di Armani non aveva seno. E questo era un mondo imperfetto, grossolanamente imperfetto.
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