Scivolarono tra le ombre.

I loro movimenti erano fluidi, essenziali. Dinamiche del puro istinto della caccia. I loro occhi, molto più acuti, molto più precisi di quelli umani, andarono alla ricerca della preda. Le unghie massicce delle loro zampe fecero solo un debole fruscio sul pavimento coperto di polvere, disseminato di detriti.

Pit-bulls. Un maschio, una femmina. Avevano avuto un padrone, ma era svanito da molto tempo. Nel loro semplice ipotalamo, dentro di loro corpi dalla muscolatura asciutta, il potere dell’orda era tornato a risorgere imperioso, divorante. La femmina si fermò, narici dilatate nell’atmosfera immobile, satura di odore di chiuso, pervasa un sottile pulviscolo in sospensione. L’ondata feroromonica emessa dalla preda arrivò ai suoi centri nervosi con la medesima intensità di una colata di acciaio fuso. La caccia era continuata a lungo. Stava per concludersi. Qui, adesso. Il maschio protese il muso oltre un banco vendita rovesciato. La preda era là. Nient’altro che un’ombra più densa della semioscurità dello sfondo, immobile di fronte a uno specchio a inclinazione regolabile.

I pit-bulls si avventarono, fauci spalancate. La bava del potere dell’orda che lasciava una scia gocciolante nella polvere.

Hendra arretrò dallo specchio la frazione di secondo in cui percepì la minaccia.

Istantaneamente, i suoi occhi azzurro ghiaccio valutarono velocità e distanza dei predatori. La sua mano destra, protetta da un guanto di cuoio nero a mezze dita, si spostò sull’arma nella fondina al fianco destro. Glock calibro 45, semi-automatica da combattimento, proiettile già in camera di sparo. I pit-bulls erono a dieci metri da lei, a cinque metri. Hendra assunse posizione di tiro, presa asimmetrica a due mani, torso di tre quarti, baricentro corporeo statico.

Il maschio, più rapido, piu poderoso, spiccò il balzo per primo. Andò dritto alla gola.

Hendra fece fuoco. Cinque hollow-point centrarono il cane a metà del salto. Gli esplosero nella trachea, nei polmoni. Gli impatti del piombo scaraventarono il cane a crollare su un ampio bancone del reparto cosmesi Estee Lauder. Decine di piccoli cilidri di rossetto volarono via in tutte le direzioni, simili ad assurdi birilli.

Hendra si riposizionò, spostando l’angolo di tiro. Piantò nella femminaquattro pallottole in rapida successione, basso ventre e colonna vertebrale. Una scintillante emulsione rossa andò ad affrescare la liscia superficie dello specchio, vaiolata in più punti dal tempo, dall’abbandono.

Hendra abbassò la Glock. Era in completo, metallico controllo, come se quell’intera esplosione di furia sembrava solo un ennesimo esercizio di una noia sconfinata. Il maschio era morto. La femmina gorgogliava negli ultimi spasmi dell’agonia. Caldo sangue arterioso continuava a dilatarsi sulla polvere, trasformandola in un amalgama purpureo. La suola dello scarpone Wolverine di Hendra inchiodò la gola dell’animale a terra.

“Buon decimo aniversario.”

La palla conclusiva della 45 fece saltare la base cranica del pit-bull come un colpo di mannaia.

Hendra tornò fuori, nel vento.

Soffiava da nord-ovest, dal grande anaconda liquido dello Hudson River. Raffiche torride come il respiro di un drago, piene degli invisibili corpuscoli solidi della disgregazione. Il vento prendeva d’infilata il baratro d’asfalto della Third Avenue. Faceva volare stracci e cartacce. Le prime foglie morte di un autunno che non si decideva a reclamare i propri diritti vorticavano contro il cielo vuoto, simili a pipistrelli deformi.

Hendra riparò i propri occhi dietro Ray-Ban impenetrabili. Sistemò lo zaino di traverso a una spalla. Camminò verso la Range-Rover ferma di traverso in mezzo alla strada. Si lasciò alle spalle le vetrine distrutte di Bloomingdale’s. Salme di abiti si ostinavano ad aggrapparsi ai manichini macellati delle intermperie. Brandelli corrosi, dalle tinte ormai irriconoscibili, oscillavano nell’aria agitata. Parevano patetici residui di una qualche svendita per spettri.

Da qualche parte, un vetro andò in frantumi.

Hendra s’installò al volante della 4X4 senza nemmeno girarsi, senza neppure alzare lo sguardo. Le strutture degli edifici deserti di New York continuavano a contrarsi, deformarsi, sgretolarsi. Processo inevitabile, inesorabile. La maggior parte delle finestre erano già andate in mille pezzi. Quelle che si ostinavano a resistere, già indebolite, già incrinate, venivano progressivamente disintegrate dagli elementi. Una qualche ignota, imperscrutabile sequenza caotica.